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Il concerto delle nozze di Cana

Le nozze di Cana: un’immagine della Chiesa.  Leggerle oggi durante la Messa dopo le parole di Paolo ai Corinzi, ci ha permesso di osservarle sotto una luce particolarmente suggestiva. Paolo diceva: “vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.” E ai primi cristiani di Corinto per spiegare la Chiesa e il mistero dello Spirito che la vivifica sempre, così aggiungeva: “e a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole.” Che meraviglia la Chiesa, che concerto meraviglioso di doni. Quindi non dobbiamo vantarci dei doni ricevuti, né fare confronti per misurarci coni doni degli altri, né tanto meno invidiarli, né desiderare un’uguaglianza mortificante tra i discepoli del Signore. Lo Spirito distribuisce i doni come vuole, con totale libertà, non è dato di chiedergli: come mai hai dato questo dono a uno e non a un altro? O se lo chiediamo potrà risponderci: li dono come voglio. Ma se leggiamo Cana, come oggi nella messa, subito dopo quelle parole di Paolo ai Corinzi, allora può capitarci di entrare come in una sala allestita dove avviene un concerto meraviglioso, o meglio un’opera lirica, dove i personaggi cantano e agiscono accompagnati da una musica sublime. La scenografia è piena di colori. Un’immagine della Chiesa e del suo mistero. Gesù è direttore d’orchestra e regista, quel direttore che conosce ogni nota della partitura e ogni parte degli strumenti, ogni attacco dei cantanti.
Ma è anche attore principale, che non vuole rubare la scena ad altri, non è protagonista unico, anzi tende a stare un po’ da parte e a far agire gli altri, anche lui a guardarli agire.. Si potrebbe dire che anche Maria, sua madre, partecipa alla direzione dell’orchestra e alla regia, e anche lei è attrice coprotagonista. E il suo canto si distingue tra tutti. A Gesù piace questo concerto, quest’opera, questo teatro. Tutti hanno un ruolo diverso , ma tutti partecipano all’opera d’arte. Anche se è Lui che opera tutto in tutti, vuole che ciascuno si muova in libertà, secondo il suo dono e il suo compito. Che suoni il suo strumento al momento giusto, che attacchi il canto con il timbro unico e inconfondibile di quella voce che lui stesso ha creato e gli ha donato, e che non si assomiglia a nessun’altra. Come comincia l’opera? Meravigliatevi: se non fosse venuto a mancare il vino non sarebbe partita la musica e le danze. Il concerto. L’inizio di tutto è dato da un’assenza, una dimenticanza, un errore. Come il silenzio che si fa densissimo quando l’orchestra è pronta e riunita e il direttore sospende attorno a sé ogni suono e attira ogni sguardo. Dio orienta al bene le cose, in modo particolare le carenze, i silenzi di sospensione, che accadono senza che noi lo vogliamo, nella vita ordinaria. Quelle distrazioni causate dai nostri limiti. Limiti ben conosciuti e voluti, e anche favoriti da Dio, perché non ci crediamo superuomini autosufficienti. Riconosciamolo: non ci siamo arrivati. Avevamo pensato a tutto, per la festa di nozze, ma quel particolare era sfuggito. Se leggiamo il concerto delle nozze di Cana secondo la chiave interpretativa di san Paolo ai Corinzi, ci chiediamo: qual è il dono Il dono distribuito agli organizzatori delle nozze? E’ aver sbagliato i conti, le previsioni. Un dono al contrario eppure così importante: decisivo!  E il dono di Maria? In questa scena, è essere presente, accorgersi, interessarsi, capire la situazione. Avere il coraggio e una tale intimità con il figlio di Dio e suo, da dirgli, sapendo che lui avrebbe capito il suo intento: non hanno vino. Tragedia in vista! Ma tu puoi evitarla. E il dono del suo Figlio, in quest’opera? E’ l’obbedienza a sua Madre, oltre che a suo Padre, e la potenza di trasformare in vino la nostra acqua. Tutta la Chiesa è: Gesù trasforma in vino di grazia soprannaturale la nostra capacità umana creata da lui. La purificazione rituale con l’acqua delle anfore, diventa la purificazione nel vino del suo sangue. I peccati sono lavati con una festa sovrabbondante. Chi mai potrebbe fare una cosa simile? Del concerto meraviglioso Gesù è anche autore della musica. Ma il libretto lo fa scrivere a ciascuno di noi, e l’interpretazione della musica è dei singoli strumentisti. I servi sono come i violinisti dell’orchestra o i cantori del coro. Suonano seguendo il tocco del direttore d’orchestra, la musica che lui stesso ha scritto. Sono stati preparati da Maria, insegnante solerte. Hanno fatto con lei un corso di perfezionamento: “qualunque cosa vi dica, fatela!” E loro seguono con lo sguardo il direttore dell’orchestra e sono docili ad ogni suo movimento, sguardo, cenno. Direttore d’orchestra e partitura. E il fiato nell’oboe  nel clarinetto, nel flauto dolce e traverso, è spinto fino all’orlo  E si appoggiano con passione sui i loro violini, con trasporto: sono tutt’uno con lo strumento. Così le anfore vengono riempite. Centoventi litri in ognuna delle sei anfore. Finiscono accalorati e contenti. Entra in scena il baritono, il maestro di tavola, l’architriclinio, colui che era convinto di dirigere il banchetto. E in parte era proprio vero. E’ la  rappresentazione della vita continua della Chiesa:  Gesù, con Maria, dietro le quinte, ogni giorno, osserva e interviene.  Maria dal suo posto di osservazione non perde nessuno di vista, osserva quello che manca alla vita della Chiesa in ogni tempo, e dice a Gesù di intervenire. E chi ha qualche compito di guida nella Chiesa è come quel maestro di tavole, quel baritono. E’ giusto che assaggi lui l’acqua. L’acqua dice Gesù!  O meglio dice prima: riempite di acqua le anfore. E poi: ora prendetene e portatene al maestro di tavola. Potrebbe essere ancora acqua. Che bravi quei servi che portano al maestro di tavola l’acqua versata al comando di Gesù. O era già vino? O lo diventa lungo il tragitto, grazie alla loro fede, alla loro docile obbedienza? Così accade nella Chiesa ogni giorno. L’acqua nostra diventa vino, come? Neanche noi lo sappiamo; e il vino nostro diventa sangue di Cristo che purifica e salva.  Canta il baritono, con la sua voce potente e bassa: “Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio  e quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora”.  Avete notato che chi dirige il banchetto ha la parte principale del libretto? Le altre parole, quelle di Gesù e di Maria sono più brevi. E’ giusto dargli spazio, al baritono che guida la tavola. Che decida lui. Che pensi pure ogni tanto che dipende molto da lui, il buon esito della festa. A Gesù piace così. Anche noi così pensiamo perché Dio ci lascia pensare che dipende molto da noi, quando Lui fa tutto. Ma noi assaggiamo, noi valutiamo e diciamo. Va bene! Si serva questo vino. Non è un ruolo da poco. Anche questo è un dono. Una voce importante nel concerto. E’ giusto che sia l’autorità nella Chiesa a discernere, a valutare il vino buono. Ma lo produce Lui, e lo distribuiscono i suoi servi. Chi sono i servi! I sacerdoti? Penso di si, ma anche ogni persona battezzata da Dio è servo di Dio: ti voglio servire, gli dice, ti servirò, ovunque sia (anche quelli che sono  sinceramente  in cerca di Lui, senza saperlo lo servono), in qualunque pezzetto di mondo. Qualunque scena di questo mondo diventa palcoscenico per il concerto di Cana, il concerto della Chiesa, l’opera lirica della comunione dei santi . E’ giusto andare dal maestro di tavola, che ha il dono del gusto, enologo espertissimo, assaggiatore, degustatore finissimo. Anche il dono di discernere, di capire e  valutare, costruisce la Chiesa. E gli sposi, silenziosi? Che dono hanno avuto, che parte in quest’opera? Storditi dalla gioia di quel giorno, di quei giorni, non si sono accorti di nulla. Ma è giusto che ricevano l’elogio dal baritono. Hanno semplicemente lasciato fare a Gesù e a Maria. Non si sono frapposti, non hanno protestato. Stanno sulla scena ben messi. Sorridono stupiti. Ammutoliti. Arriverà il loro momento, tenore e soprano, di duettare per lodare Dio. Non hanno voluto essere protagonisti fuori luogo, fuori tempo. Non si sono agitati. A loro toccava fare gli sposi, essere sposi, essere contenti e lasciarsi curare da Dio e dalla sua madre. L’hanno fatto. E bene. Vengono alla mente anche quegli strumenti che intervengono solo per qualche breve tempo in un concerto: i piatti, i timpani, il triangolo, il corno. Aspettano tutto il tempo per poi dire: ci sono anch’io  Ma non sembri che il non essere protagonista sulla scena sia sempre inazione: pensate che prima di tutto  hanno invitato Maria e Gesù alle nozze. Vi sembra poco? Senza quell’invito non ci sarebbe stata storia. E poi, e poi quali altri protagonisti nello spettacolo della Chiesa di Cana? Anche gli spettatori, come succede sempre a teatro, hanno un loro ruolo, partecipano al concerto. Guardano, ascoltano, godono, si lasciano emozionare dalle musiche e dai canti. Si lasciano avvolgere dall’acustica meravigliosa, dai colori. E chi canta, suona, recita, sa che il proprio agire è diverso ogni volta, sente la risposta del pubblico. E’ il dono dei discepoli, che sono spettatori per questa volta, e guardano e credono in Gesù. Lasciano che la loro fede cresca grazie a quel segno. Il regista, sceneggiatore, autore divino e direttore d’orchestra aveva assegnato a loro quel ruolo, aveva dato loro quel dono: guardare e capire, o almeno conservare nel cuore per poi col tempo capire. E trasmettere un giorno, anche per scritto. Così Giovanni ha fatto. Tutti con un dono particolare che serve alla festa delle nozze. Come strumenti di un concerto divino. Come ogni dono che serve alla vita della Chiesa. E’ lo Spirito che lo ha dato per il bene di tutti. Mi è parsa conferma di questa lettura il salmo 150 delle lodi del mattino di oggi che incitava a lodare il Signore con vari strumenti, non uno solo: squilli di tromba, arpa e cetra, timpani e danze, corde e flauti, cembali sonori, cembali squillanti. Ecco cosa mi ha suggerito oggi la partitura liturgica. La lettura di san Paolo ai Corinzi che introduceva il racconto delle nozze di Cana nella Messa della seconda domenica dell’anno.


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Il Natale dei pastori

Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce (Lc 2,9) 

Quei pastori vegliavano la notte, non attendevano il Salvatore, ma facevano ciò che la vita li chiamava a fare: vegliare sul loro gregge. Probabilmente stanchi, forse vuoti e freddi. Poveri, rozzi, qualcuno con qualche vizio nascosto. Gente che non si aspettava nulla da nessuno e che conosceva solo la fatica dei pascoli, il freddo pungente dell’inverno e la calura afosa dell’estate. La vita era tutta lì, in quelle poche pecore da vegliare persino la notte perché animali o uomini non arrivassero a depredarle. Tutta lì in quelle quattro cose senza importanza. Questa era la cornice del  Natale dei pastori. Di profezie e di  annunci non sapevano. Forse ricordavano qualcosa o forse neppure più nulla: solo un vago sogno di bambini, perché la durezza della vita è capace di passare sopra e di coprire con le sue scorie anche i sogni più ambiti e le profezie più audaci. Ma loro è riservata una parola misteriosa del vangelo di Luca. Fino a quel punto tutto poteva sembrare quotidiano, quasi normale nel racconto della nascita di Gesù, tranne l’insolito evento del censimento: un viaggio, un parto, 
una stalla come stanza e una mangiatoia come culla. Sarà successo a tanti, molte volte, nelle società contadine. Ma l’angelo e la gloria del Signore irrompono come novità in quella notte. Forse noi che sappiamo gli antefatti, l’angelo ce lo saremmo aspettati: aveva parlato a Zaccaria, a Maria, a Giuseppe, adesso va a una rappresentanza delle genti. C’è una coerenza, un progetto comunicativo… ma quella luce che li avvolge che è la gloria del Signore! Cosa sarà mai stata? E che sarà stata per loro, per i pastori, quella luce? La gloria del Signore! Nel nostro immaginario quella parola si veste di mille sfumature di potenza, ricchezza, forza, ma la gloria per l’ebreo è un’altra cosa, è il peso, la consistenza… qualcosa di molto concreto e reale. I pastori sono avvolti da Lui e l’abbraccio di Lui è come un mantello di luce sulla loro esistenza. E’ Lui che c’è, è il Signore che abbraccia, Dio che trasforma le tenebre in luce con un avvolgimento. Viene in mente l’ombra dell’Altissimo che avvolse la Vergine Maria e la rese Madre del Figlio di Dio. Per i pastori quella Luce deve essere stata qualcosa di simile. Come l’ombra di Dio, così la luce di Dio avvolge i pastori e li rende i primi destinatari del mistero. Dopo Maria e Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta,  diventano i primi evangelizzatori. I pastori così poveri e malmessi, forse pure così peccatori, hanno avuto un posto in quella notte, hanno visto una Presenza che li ha pensati, amati, avvolti di luce. Quello che poi hanno contemplato con i loro sguardi – andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere (Lc 2,15)–  l’avevano già conosciuto nei loro cuori, sulla loro pelle avvolta di luce, e forse lo riconoscono proprio perché quell’abbraccio di luce è entrato sotto pelle, come entra sotto pelle il vagito di un neonato, o perché il neonato era avvolto di quella stessa luce. Tanti al mondo sono così, come i pastori. Che vivono la notte senza attesa. Che subiscono la notte come un evento ineluttabile, aspettano l’alba perché sempre arriva. Noi tutti siamo così, pastori ignari, e a volte ci sentiamo così, pastori con la pelle resa dura dalle notti all’aperto, dai giorni al vento e al sole, dal contatto quotidiano con le greggi e con la nuda terra. Tanti sono, che quell’abbraccio di luce non lo attendono neppure, vegliano semplicemente facendo quello che la vita chiede di fare. Guardano il loro povero gregge, e non si sanno guardati da Dio, dagli angeli di Dio, che in un momento preciso della loro storia li sveglierà, canterà loro, li avvolgerà di luce. Forse in questa stessa notte. Noi desideriamo la luce di questa notte. Noi che custodiamo il gregge, perché non si avvicinino i lupi rapaci, e non è mai abbastanza l’esperienza per riconoscerne il passo e l’odore, magari ci fosse l’ululato, sarebbe più semplice. E a volte ci si addormenta, a volte non si può stare così tanto al freddo. E il fuoco si spegne, bisogna riaccenderlo. E sembra ai pastori di esser così lontano da Dio, non riescono a ricordarsi di Lui, presi dalla custodia del gregge, dalle pietre da tirare alle pecore che stanno per andare in un precipizio, a scarnificarsi per ritrovare quella smarrita. E Dio improvviso avvolge della sua gloria i pastori, senza loro e nostro merito, e ritornano le forze e la voglia di camminare pur essendo notte verso quella luce, che dalla grotta guida. Quel calore che attrae. Quell’abbraccio di Maria, di Giuseppe a quel bambino, abbraccio di sguardi, di fasce, di sorrisi, di stupori, che avvolge anche noi, anche voi pastori qualunque, della gloria del Signore.
Notte del 25 dicembre 2012
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Epifania: Gerusalemme, Betlemme e Maria

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme  e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».
All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è
scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro
scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. (Mt 2, 1-12)

Con Erode anche tutta Gerusalemme rimane turbata da quei personaggi d’Oriente che chiedono del  re dei giudei che è nato.  Un po’ li capiamo: appena nato è già re, non deve aspettare la successione. Ma loro dovrebbero capire, sapere, credere: conoscono le scritture. La città madre, che lui amerà tanto,  Gerusalemme, invece  è fredda e ostile.  Non lo abbraccia appena nato, non gli dà il latte. Non crede in lui. Da grande Gesù piangerà su di essa  che non ha riconosciuto il tempo in cui è stata vistata, non ha riconosciuto il frutto del suo grembo. Anzi da bambino gli ha lanciato contro soldati per ucciderlo. Ci proverà anche quando lui sarà  grande e allora ci riuscirà, Gerusalemme, ad ucciderlo, perché lui lascerà fare. Non è l’unica a fare così. Anche Nazaret lo tratterà male: nessuno è profeta nella sua patria, spiegherà ai suoi discepoli. Ma non è tutto freddo nella sua vita:  la madre Maria a Betlemme,  e la sua
casa, sono calde e accoglienti. Stanno sotto la luce della stella e lì entrano i Magi, che per questo lo hanno trovato. Per la luce e il calore della stella. E lì trovano la luce e il calore della madre, così forte che li attrae,tanto che poi si dimenticano di Giuseppe nel raccontarlo, lui che si mette un po’ da parte e lascia in primo piano la madre, come se si considerasse  un po’ indegno di tanta luce. Trovano la luce e il calore del Bambino. Si trovano così bene! Cosi accolti che è facile aprire gli scrigni, dove hanno i loro tesori, i regali preparati da tempo. Come è facile aprire i cuori e svelare i segreti dell’anima quando c’è il calore dell’affetto e dell’accoglienza. Quindi Gesù ha provato il calore della madre, e il freddo delle città madri, degli ambienti in cui è cresciuto e che avrebbe desiderato che lo accogliessero, che lo capissero. Freddo e caldo. Ostilità e amore. Comprensione e distanza. Caldo troverà Gesù  il pianto della madre che lo consolerà sotto la croce fredda di  Gerusalemme, quando i soldati gli daranno fiele mischiato con mirra di Betlemme, per calmarne il dolore. Caldo  l’abbraccio della madre  e il suo sorriso all’alba del primo giorno dopo il sabato quando apparve a lei risorto e vivo, a Gerusalemme, luogo della sua nascita  nuova e per sempre. La vita ha sconfitto la morte. Quindi  noi che sappiamo come andrà a finire, sappiamo che anche Gerusalemme ha imparato da Maria e ha saputo diventare madre calda e accogliente. Dalle sue viscere, dalla sua terra chiusa, dal sepolcro sigillato,  è nata la vita nuova di Cristo risorto, che non muore più. Primizia della nostra stessa risurrezione. Per questo Gesù chiede a Maria Maddalena in quel giardino di Gerusalemme: perché piangi, chi cerchi? Perché porti mistura di mirra e aloe per imbalsamare un corpo che è vivo? La mirra ha già compiuto il suo fine. Le lacrime su Gerusalemme sono finite. E’ diventata madre calda e accogliente. Ha imparato da Maria, dalla casa di Betlemme. Adesso abbraccia per sempre, e dà luce e calore. Quella terra ormai santa, irradia la sua fede in Gesù risorto e vivo.