Un gesto che si confà perfettamente all’anima di un santo. E’ un genere di umiltà che oggi non siamo abituati a vedere, in special modo nella vita civile, dove tante persone sono attaccate alla poltrona, al posto di comando…
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Don Valentino Guglielmi. Un ricordo
Non mutò per nulla il tono di voce: niente oratoria roboante o effetti retorici di quelli usati –anche giustamente- da molti celebranti, ma pensiero incisivo e esattezza di esposizione. Estrasse, dalle letture del giorno, concetti impegnativi, tanto che mi domandai –presuntuosamente- quanti tra gli astanti stavano effettivamente seguendo quel discorso che, dipanandosi, assomigliava sempre più a una lezione di teologia. Ma dopo qualche minuto, percependo intorno a me una grande attenzione, capii che la sapiente semplicità con cui don Valentino ci guidava in temi complessi, li rendeva comprensibili. E c’era di più: sentivo che le sue parole, entrandomi nella mente, vi smuovevano qualcosa, minavano il pigro equilibrio della mia coscienza. Le sentivo lanciarmi una sfida: prova, adesso, a riassopirti, dicevano, prova a rifugiarti nelle solite formule consunte e rassicuranti. Prova a continuare tranquillo nella tua routine. Pendevo dalle sue labbra e, con me, tutta l’assemblea. Quando ebbe ottenuto l’apice dell’attenzione chiuse la predica con uno schiocco improvviso, una frustata, si girò, andò all’altare e iniziò il Credo. Avevo incontrato, quella sera di una domenica d’autunno, uno degli uomini più straordinari della mia vita. Ci vuole un po’ di tempo ed è necessario ascoltare più di una omelia, per apprezzare un bravo predicatore. E infatti fu dopo tre o quattro messe, superati certi miei schemi mentali, che cominciai a intuire –era solo un sospetto per il momento- le profondità verso cui quel piccolo prete ci attirava pian piano, senza apparentemente sospingerci, senza volerle imporre, ma solo indicandocele, mostrandocene, in lontananza, la possibilità. Dopo un paio di mesi attendevo la domenica sera con impazienza, come un appassionato di calcio aspetta i risultati della squadra favorita. La differenza era che con don Valentino perdevo tutte le partite: era sempre lui a vincere. Era lui a fare gol. La porta in cui, domenica dopo domenica, insaccava i suoi tiri magistrali, era il mio cuore. Eppure don Valentino non era un sentimentale. L’invito che ci rivolgeva con le sue omelie perforava l’involucro umido, emotivo, della psiche, e cercava invece quello strato profondo e misterioso, dove la razionalità e la sensibilità di ognuno si incontrano alle rispettive sorgenti, “Dove l’uomo è più solo e dove è più uomo” come scriveva, e che a volte identificava con il concetto agostiniano di “Cuore”. Una volta toccato, questo “cuore” –il mio come, credo, quello di tutti gli altri- non poteva più restare indifferente. Alcune sue omelie, pronunciate con quel ritmo lento e quel tono di voce pacato che erano suoi, si stampavano nella memoria come incisioni al laser nel bronzo. Ricordo una sera d’inverno in cui parlò della preghiera, ci invitò a rivolgerci a Dio come a un padre, con la fiducia, la confidenza e l’insistenza dei figli che sanno bene, fin da piccoli, come il papà non può e non vuole sottrarsi dal far loro tutto il bene possibile. “Voglio Te!” esclamò alla fine e, cosa insolita per lui, alzò gli occhi e perfino una mano per enfatizzare il concetto, “Ti voglio tutto! Non mi accontenterò di nulla di meno che di Te!” Poi si girò e andò all’altare a recitare il Credo. La sua idea di Cristianesimo, così come la andavo deducendo, domenica dopo domenica, dalle sue omelie, era agli antipodi di quel sistema di regolette morali, di pie pratiche e di sospiri svenevoli che a volte passa per religione. La proposta cristiana era per lui una sfida, un cimento, un’impresa nobile e virile. “Invochiamo la Santa Vergine perché ci aiuti nell’impresa” e “Preghiamo lo Spirito Santo perché aumenti le nostre forze e ci sostenga nell’impresa”, erano le chiusure più ricorrenti delle sue prediche. Potevano sembrare esortazioni di un capitano di ventura rivolte ai suoi cavalieri in procinto di una battaglia, e lo erano in un certo senso, sempre che si tenga presente che la guerra in cui don Valentino ci guidava era contro la nostra pigrizia, e che le armi di cui ci voleva dotare erano l’umiltà, la carità, l’attenzione all’altro la volontà di non giudicare. Ma la sua visione del Cristianesimo era dotata di un’architettura troppo poderosa perché nelle omelie potesse lasciarsi conoscere completamente. Fu la stessa amica che vinse qualche mia resistenza e mi persuase a prender parte agli incontri settimanali di catechismo. Ci arrivai con un bagaglio di pregiudizi e perfino una punta di sufficienza. Bastò mezz’ora per fare strage di quei miei atteggiamenti. Se dal pulpito il piccolo prete dominava con la sua potente semplicità, nelle riunioni di catechismo, cui partecipavano dalle due alle dieci persone al massimo, don Valentino si imponeva per la delicatezza con cui ci faceva dono dei tesori della sua personale, finissima, ricerca spirituale. Anche qui, come dal pulpito, che commentassimo l’inquietante S. Paolo o il Qohelet, Sant’Agostino o un’enciclica del Papa, la sua capacità di sintesi ci restituiva i testi in una forma così semplice da renderceli subito familiari. Certo, veniva da pensare, è logico, è questo il significato. Come accade solo con le idee veramente luminose, mi sembrava di aver sempre saputo che il senso di un testo sacro fosse quello; solo dopo un po’ mi rendevo conto che non era così e mi meravigliavo della mia miopia. “Un uomo che si avvicina a Dio è come un uomo che va alla fonte con un secchio”, diceva. “Non può sperare di mettere tutta la sorgente nel secchio; ma può riempire il suo secchio di Dio.” Quindi taceva, lasciava sedimentare quel concetto nei nostri animi, sorrideva con un’aria amabile e furbesca (sapeva bene di aver colpito nel profondo), poi riprendeva: “Ora, se il nostro secchio è pieno di detriti, sarà poca l’acqua che potremo metterci. Conviene quindi, prima di accostarci alla fonte, svuotare e ripulire il secchio.” E quindi? chiedevamo. “E quindi Dio è la fonte, il secchio è il nostro cuore. Se vogliamo accogliervi Dio, dobbiamo prima svuotarlo e presentarci a Lui nudi e semplici, come bambini.” E cosa sono i detriti? domandavamo a questo punto.
La Madonna, Madre della nostra fede
Omelie di don Matteo Fabbri per la Novena all’Immacolata,
Duomo di Milano, 29 novembre- 7 dicembre 2012
I giorno: 29 novembre:
Sia lodato Gesù Cristo!
“Rallegrati, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te. Oracolo del Signore. Nazioni numerose aderiranno in quel giorno al Signore e diverranno suo popolo, ed egli dimorerà in mezzo a te e tu saprai che il Signore degli eserciti mi ha inviato a te.”[1].
Queste parole profetiche, appena proclamate, possono costituire il portico di ingresso nella
Novena che oggi inizia, per onorare, come ogni anno, l’Immacolata.
Il profeta Zaccaria si riferisce in maniera immediata alla figlia di Sion, alla personificazione del popolo eletto, alla città Santa. Ma siamo evidentemente di fronte a un esempio di “parole in attesa”, secondo la bella espressione di Benedetto XVI[2]: l’oracolo del profeta trova il suo pieno compimento nel fatto della Incarnazione; quello è il momento in cui i tempi messianici si compiono. E si compiono in Maria Santissima. I magnalia Dei, le grandi meraviglie di Dio, si realizzano nella giovane Vergine di Nazaret, al di fuori di ogni previsione possibile agli occhi umani.
E ciò che rende possibile il compimento dei piani divini è la risposta di fede della Madonna. Possiamo dire senza titubanze che il primo ritratto che il Vangelo ci offre della Santissima Vergine è quella esclamazione di Elisabetta, nel momento della Visitazione: “Beata colei che
ha creduto!”[3]. La Madonna è colei che ha creduto più di tutti, ma anche colei che ha creduto prima di tutti. È la sua fede che rende possibile la nostra; è il primo anello di una catena alla quale noi pure apparteniamo.
Non è sfuggita a nessuno di noi la circostanza che quest’anno il nostro incontro mariano è come incastonato nell’Anno della fede. Appare quindi del tutto logico meditare in questi giorni sulla Madonna come donna della fede. È il Pontefice che ci invita a farlo, nel Motu proprio Porta fidei, echeggiando l’andamento del capitolo undicesimo della Lettera agli Ebrei: “Per fede Maria accolse la parola dell’Angelo e credette all’annuncio che sarebbe divenuta Madre di Dio nell’obbedienza della sua dedizione…”[4].
Viviamo in un tempo in cui, lo sappiamo bene, credere non è facile. Siamo circondati dal relativismo, che tende a vedere in ogni affermazione veritativa e in ogni certezza una intolleranza. Molti arrivano addirittura a confezionarsi una fede a proprio gusto, una fede “fai da te”[5], o considerano il riferimento al sacro come una sorta di abbellimento della propria vita, un ornamento grazioso, se non addirittura come un elemento utile per il proprio benessere: ricordo un amico teologo che, addentratosi in una libreria generica si mise a cercare lo scaffale dedicato a “religione” (o almeno a “religioni”); il suo sconcerto fu notevole nel rendersi conto che la religione era considerata un settore del “fitness”.
Di fronte a questo pervasivo clima culturale vogliamo ricordare con forza quanto il nostro Card. Arcivescovo ci scrive all’inizio della Lettera pastorale Alla scoperta del Dio vicino, dedicata come ben sappiamo proprio all’Anno della fede: “La fede cristiana è generata e alimentata dall’incontro con Gesù, verità vivente e personale: è risposta alla persuasiva bellezza del mistero più che esito di una ricerca inquieta, è fiducia nutrita dall’incontro con il Signore più che una scelta causata dalla sfiducia nelle risorse umane e da uno smarrimento che non trova altra via d’uscita”[6]. Ebbene, questo incontro con Gesù, diciamolo con forza, anche per ciascuno di noi passa attraverso la Madonna e la sua fede. In altre parole, la fede non è frutto della nostra sensibilità interiore, per quanto spiccata essa possa essere. La fede è un incontro vivo con Cristo, la fede è apertura del nostro cuore, la fede è dono dall’alto.
E allora, di fronte alla crisi di fede che ci circonda, di fronte alle difficoltà personali, ma anche di fronte all’appello e alla chiamata che il Papa rivolge a tutti i cristiani con l’Anno della fede, rispondiamo tornando alle radici della nostra fede. E queste radici sono mariane!
È la fede della Madonna che sta all’inizio e si pone come fondamento della fede della chiesa nascente. È la fede della Madonna che si colloca al sorgere della fede di ciascuno di noi.
La Santissima Vergine ci mostra l’atteggiamento primordiale della fede: ascoltare e custodire la parola che Dio ci rivolge.
Quanto abbiamo da imparare! Ascoltare e custodire la parola di Dio. E quanto volte invece noi siamo preoccupati di riuscire ad esprimere con autenticità i nostri sentimenti e il nostro pensiero. Quanto ci preoccupiamo di parlare e di “spiegarci”, di comprendere e di capire. Nella fede il principio è più semplice: è la risposta. Dio ci viene incontro in Cristo, attraverso la sua Chiesa: nei Sacramenti, nella Liturgia domenicale, nella Parola di Dio proclamata o meditata personalmente, nella Tradizione viva della Chiesa, nella nostra santa dottrina cristiana. Si tratta di accogliere e meditare tutto questo e di custodirlo nel cuore. Con parole del Pontefice: “È possibile oltrepassare quella soglia [la Porta della fede] quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita”[7].
La Madonna ci insegna proprio questo. In quel momento meraviglioso, atteso dai secoli, in cui l’Angelo le si presenta e le riferisce il messaggio che diverrà la Madre di Dio, Ella semplicemente risponde di sì, e con questo sì apre anche a ciascuno di noi la strada. San Josemaría, fondatore dell’Opus Dei, descriveva così quell’evento: “Oh Madre, Madre!: con quella tua parola – Fiat – ci hai reso fratelli di Dio ed eredi della sua gloria. Sii benedetta!”[8].
Ma la fede della Madonna non è solo un’adesione iniziale. Essa cresce lungo tutta la sua vita, sui passi della vita di Cristo. La sua presenza, dalla Incarnazione alla Nascita fino alla Croce e alla Risurrezione, è tanto discreta quanto reale e fondamentale.
E non è una presenza esteriore, accidentale. È una presenza materna. Ella è a Cana, all’inizio dei “segni” compiuti da Gesù: e questo momento non è solo l’inizio della manifestazione della gloria di Gesù; è anche, inseparabilmente, l’inizio della fede dei discepoli. È Giovanni, infatti che nota, dopo il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, che “i suoi discepoli credettero in Lui”[9]: la fede dei discepoli è quindi frutto della richiesta della Madonna: Ella, che già vive di fede, contribuisce a generare la fede dei discepoli. Ancora più evidente è il suo ruolo materno ai piedi della Croce. Il dialogo che Giovanni, testimone oculare e protagonista, ci riferisce, non cessa anche oggi di interpellarci: “Donna, ecco tuo figlio. (…) Ecco tua Madre”[10]. Già il beato Giovanni Paolo II commentava così questo passo, nell’enciclica Redemptoris Mater: “questa nuova maternità di Maria, generata dalla fede, è frutto del nuovo amore che maturò in lei definitivamente ai piedi della Croce, mediante la sua partecipazione all’amore redentivo del Figlio. (…) La sua presenza discreta, ma essenziale, indica la via della nascita dallo Spirito. Così Colei che è presente nel mistero di Cristo come madre, diventa – per volontà del Figlio e per opera dello Spirito Santo – presente nel mistero della Chiesa. Anche nella Chiesa continua ad essere una presenza materna, come indicano le parole pronunciate sulla Croce: Donna, ecco il tuo figlio; Ecco la tua madre”[11].
Come la Madonna è presente, per così dire dal di dentro nel mistero della Incarnazione Redentrice, così Ella è presente “dal di dentro” nella nostra vita di fede, in questo personalissimo incontro con Gesù che è la sostanza della fede di ciascuno di noi. Ella ci aiuta così a non confondere la nostra fede con una semplice aspirazione soggettiva o con un pio sentimento; Ella ci mostra che la nostra fede (come la sua!) è chiamata a diventare vita. Ella ci indirizza verso Suo Figlio, il nostro Redentore.
Ecco allora che semplicemente non ha senso considerare non attuale la devozione mariana, concepirla cioè come qualcosa che in una presunta maturità della fede dovrebbe essere abbandonata e lasciata alle spalle. Tutt’altro. La prova ne viene anche dalla vita dei santi, che brillano come luci vicine nel nostro firmamento: pensiamo a quel grande innamorato di Maria Santissima che è stato il nostro amato Papa Giovanni Paolo II: il riferimento alla Madonna innervava letteralmente tutta la sua vita di preghiera e anche la sua azione pastorale.
Egli ha rafforzato la nostra fede, come l’apostolo Pietro (“et tu confirma fratres tuos”[12]) proprio attraverso la devozione mariana. Ricordo di aver sentito da uno dei partecipanti il racconto di una riunione tra i membri di alcuni Dicasteri della Curia Romana, presieduta dal Papa polacco, nella quale si stava prospettando una situazione davvero difficile e dolorosa per la Chiesa intera. Al termine della esposizione del relatore, il Papa, allora ancora giovane e vigoroso, battè un pugno sul tavolo, dicendo con forza: “sed Ipsa conteret!” (Ella schiaccerà la testa del dragone infernale[13]).
La Madonna è luce anche per la nostra fede. Vogliamo e possiamo vivere questi giorni onorandola, sapendo che così non ci limitiamo ad alimentare una devozione sentimentale: rafforziamo piuttosto le fondamenta della nostra fede.
E anche in questo non siamo soli. Viviamo la nostra fede nel grande “noi” della Chiesa intera, nella grande Tradizione di due millenni. E con gioia, con sicurezza, con maturità, facciamo nostre tutte le devozioni di sempre, che continuano a restare pienamente attuali. Penso adesso al Santo Rosario, che abbiamo recitato prima di questa celebrazione. Come anche il nostro Cardinale ci diceva lo scorso anno, possiamo recitarlo sempre, ogni giorno. E se gli impegni professionali e familiari ce lo rendono difficile, possiamo sgranare almeno una decina in tram, in Metropolitana, per la strada. Non è vero che il Rosario è preghiera passata di moda! Non è vero che è noioso e ripetitivo: è una questione di amore! Anche gli innamorati si ripetono sempre le stesse cose!
San Josemaría nel 1970 si recò in Messico, davanti alla Vergine di Guadalupe, per pregare per la Chiesa intera e per l’Opera da lui fondata per ispirazione divina. Furono giorni di appassionata preghiera filiale, in cui tra l’altro diceva: “Monstra te esse matrem (mostra che sei nostra Madre[14])… e non rispondermi “monstra te esse filium”, perché non so che altro posso fare.” Parole commoventi, che scaturivano da un cuore innamorato di Maria e della Chiesa, un cuore che si affidava totalmente tra le braccia di Dio Padre, aiutato e condotto dalla Madonna.
Noi non siamo all’altezza di questi santi, ma siamo figli esattamente come loro. Non abbiamo la forza di Giovanni Paolo II, ma anche noi possiamo affermare come lui “Totus tuus”!
Ci rivolgiamo alla Madonnina che dall’alto del nostro Duomo, presiede e vigila sulla nostra città; è davvero Turris civitatis, torre di guardia, che custodisce noi suoi figli. A Lei chiediamo in ginocchio: in questi tempi difficili, aiutaci a credere e ad amare con tutto il cuore!
Che bello essere figli di Maria e della sua fede!
[1] Zc 2, 14 – 15 (II Lettura della Messa).
[2] J. Ratzinger – Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli – LEV, Milano – Città del Vaticano 2012, pp. 26 – 27.
[3] Lc 1, 45.
[4] Porta fidei, n. 13.
[5] È il Papa stesso che usa questa espressione: cfr. Omelia 21-VIII-2005.
[6] Alla scoperta del Dio vicino, n. 2.
[7] Porta fidei, n. 1.
[8] Cammino, n. 512.
[9] Gv 2, 11.
[10] Gv 19, 26 – 27.
[11] Lett. Enc. Redemptoris Mater (25-III-1987), n. 23 – 24.
[12] Cfr. Lc 22, 32.
[13] Cfr. Gen 3, 15.
[14] Inno Ave maris stella.
Pietro e Giovanni, due apostoli, due diversi destini pensati e spiegati a loro da Gesù.
indimenticabili e sconvolgenti, Pietro guarda a Giovanni con stupore, senza più quella punta di invidia per la sua giovane età, per la predilezione di cui lo circondava il Maestro, che lo aveva come suo discepolo prediletto ed era a tutti evidente, forse perché era deciso a seguirlo donandosi del tutto, come Gesù, nel celibato. Lo guarda senza più il rancore che invece lo aveva invaso quando Giovanni tentò, con Giacomo suo fratello, di ottenere di nascosto il privilegio di sedere uno alla destra e l’altro alla sinistra nel regno di Cristo, di essere loro due i più importanti, cercando di scalzare lui che era chiaramente il primo e il più grande tra loro, quello a cui Gesù aveva detto, “tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”. Anche quella mattina, dopo la notte inutile di pesca, è stato Giovanni a riconoscere il Signore per primo, ma poi gli ha detto: “Pietro, guarda: è il Signore, vai tu, portiamo noi a terra i pesci!”. Gli lascia il primato, lo lascia comandare. Nonostante che Pietro abbia rinnegato, in quella notte dei tradimenti, Gesù. Pietro è ammirato, quel ragazzo ha qualcosa di grande, cosa farà nella vita? E’ così più in gamba di me! E’ mai possibile che Gesù non dica adesso a noi due: che sia lui la pietra su cui costruisco la mia Chiesa, tu fatti da parte. Pietro ha conosciuto il suo futuro, ed è curioso di sapere che progetto ha Gesù su Giovanni, il discepolo amato. Di lui che sarà? Sarà il mio successore nella guida della chiesa? Come è possibile che con tutta la sua predilezione e tutti i comportamenti eccezionali di questi giorni, non scelga lui come capo della chiesa? O almeno come mio primo successore? E se lo predilige come il discepolo amato, perché non da anche a lui il privilegio di seguirlo fin sulla croce? Per questoPietro si volta. Lo calamita la persona di Giovanni. Lo interroga. Dov’è, cosa sta facendo? Come fa ad essere così attento e così profondo? E Gesù lo corregge ancora una volta: lascia stare, non devi confrontare la sua vita con la tua, siete diversi , avrete destini e compiti diversi, entrambi miei testimoni. Ma avrete due fine vita diversi. A te chiedo una cosa, per seguirmi, a lui un’altra. A te che importa? Non ti confrontare, non pensare di dover fare come lui, o che lui debba fare come te, tu pasci le mie pecorelle. Se voglio che egli rimanga finché io venga. C’è una volontà di Cristo per Pietro, e una volontà di Cristo per Giovanni, Volontà diverse. Destini diversi. Modi di servire la chiesa diversi. E nella chiesa dei primi tempi succede come nella chiesa dei tempi successivi e come nel mondo, perché siamo nel mondo, che si diffondono voci incontrollate. Interpretazioni non vere. Corrono voci. C’è un bisogno della gente, il bisogno di darsi una spiegazione, di capire come mai. E il Vangelo dice la frase letterale, ma non la spiega. Nega l’interpretazione che le parole di Gesù significhino che Giovanni “non morirà”, ma non spiega esattamente cosa significhino. Benedetto vangelo! Forse vuole dirci che non dobbiamo cercare ad ogni costo una spiegazione per tutto. Che non siamo tenuti a riceverla, che potremo fino alla fine dei secoli interrogarci, e ci saranno diverse interpretazioni e nessuna potrà vincere sull’altra perché non toccano l’essenziale della fede. Lo Spirito Santo si diverte a lasciarci aperto il futuro. Ci vuole dire che Gesù svela poche cose sul futuro e basta. Due destini diversi, due modi di versi di andare sulla croce, di subire il martirio. Di testimoniare Cristo. Con la croce di Pietro, con il Vangelo di Giovanni. Con una vita breve e con una vita lunga. Se neanche Pietro che è a capo della chiesa è concesso da Gesù di sindacare sulla fine destinata a Giovanni, potremmo forse noi? E’ bello che nella Chiesa ci sia Pietro e ci sia Giovanni e che siano così diversi, complementari. Nel modo di essere, nel carattere, nell’età pur essendo entrambi pescatori, entrambi apostoli di Cristo, entrambi sacerdoti della nuova alleanza, vescovi. E Pietro, primo Papa. Anzi, primo Pietro. Affascinante. Cosi anche ciascuno di noi può seguire la sua strada, la sua vocazione, con libertà, senza condizionamenti, senza pregiudizi, senza precedenti, guardando Cristo, ascoltando Cristo, unito alla chiesa, andando a pescare con Pietro e con Giovanni, uniti nella pesca, nella sconfitta di una notte senza frutto. Non presero nulla, e uniti in una mattina di miracolo, di pesci grossi, centocinquantatré, una mattina di colazione con Gesù sulla riva. Uniti, ma poi diversi nel colloquio personale con Cristo. Due colloqui diversi, due destini diversi, due storie diverse e uniti nella fede e nell’amore per Cristo e per la Chiesa. Dopo l’Ascensione del Signore, dopo la Pentecoste, nei primi passi della Chiesa, negli Atti degli Apostoli, li si vede sempre insieme. Il frutto della consapevolezza della propria unicità davanti a Dio, è l’unità tra di loro. Pregano insieme, fanno miracoli insieme, vengono arrestati insieme, processati insieme, incarcerati insieme, flagellati insieme, inviati insieme in Samaria. Ma poi uno a Efeso e l’altro a Roma. Uno muore negli anni sessanta, l’altro va avanti fino agli anni cento. E dopo aver letto e meditato questo Vangelo ci meraviglieremo ancora che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI abbiano avuto due modi diversi di portare a termine il loro ministero di successori di Pietro? Anche se Giovanni non fu Papa, possiamo applicare l’insegnamento alla diversità dei Papi in tutta la storia della chiesa. Con serenità e con gioia. Benedetto XVI spiegava tre giorni prima del suo annuncio di lasciare il ministero petrino, ai seminaristi romani: “E penso che, andando a Roma, san Pietro (…) certamente si è ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: “Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cfr Gv 21,18). E’ una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così, sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. E la croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico”. Il martirio ha forme molto diverse, dice il Papa. Di Pietro si sa bene la morte in croce, di Giovanni non si conosce con precisione la fine. Fu esiliato a Patmos, dove scrisse l’Apocalisse, Scrisse le lettere per mantenere nella fede e nell’amore i fedeli cristiani, scrive a Eletta, che forse è la chiesa di Roma. Confida nella sua terza lettera “Non ho gioia più grande di questa, sapere che i miei figli camminano nella verità”. Sarà chiamato “il teologo”. Non fu Papa, ma per alcuni motivi lo possiamo avvicinare a papa Benedetto, soprattutto lo potremo fare dopo il 28 febbraio 2013, ore 20. E visse molto a lungo. Torniamo sulle rive del mare di Tiberiade…Gesù guarda Pietro e Giovanni venire verso di lui, sulla riva, con la barca della chiesa carica di pesci che lui gli ha fatto trovare. Gioisce nel vederli collaborare, sommare le loro diverse attitudini. Li ama così con la loro diversità di compiti, di carattere e di missione, di destino finale della vita terrena. Noi guardiamo Gesù sulla riva. E’ sempre Lui che guida la sua chiesa, il Sommo pastore lo chiama papa Benedetto XVI nelle sue dimissioni, che ci dice dove gettare la rete, che ci incoraggia nonostante una notte infruttuosa. Pietro si butta in acqua e nuota rapido per cento metri, Giovanni arriva a terra con la barca. Gesù ha preparato per entrambi, e per i loro compagni, una ricca colazione, ha già lui dei pesci, quasi non avrebbe bisogno dei pesci che loro avevano pescato, ma glieli chiede lo stesso: ci chiama a collaborare con Lui per il fine della chiesa. Ma è lui che guida la barca, e la pesca, e anche la frittura di pesce per la colazione, per dare cibo buono a tutti.
Anche Pio XII aveva pensato di dimettersi dal papato
la Chiesa non può essere diretta da un papa che non può dare tutto se stesso”». Parole che sembrano richiamate nella dichiarazione di Benedetto XVI dell’11 febbraio 2013: “nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”. Pio XII, spiega Tornielli, “aveva in animo di trascorrere gli anni che gli restavano in cura d’anime. «Vado a Rorschach – diceva – a fare il cappellano»”. Rorschach, é una località sul lago di Costanza, dove Pacelli si era recato, ai tempi della nunziatura a Monaco di Baviera, per brevi periodi di vacanze di lavoro, nell’istituto Stella Maris delle suore della Santa Croce. “E avrebbe attuato questo suo desiderio se i medici non lo avessero assicurato che si sarebbe riavuto bene e avrebbe potuto lavorare”. Tornielli riferisce anche le parole di Cesidio Lolli, che al tempo di Pio XII era redattore e vicedirettore dell’Osservatore Romano: «L’ho sentito più volte esprimere la speranza di avere una malattia breve al termine dell’esistenza terrena, e di avere un solo giorno di lucidità, pur sempre rimettendosi completamente alla volontà di Dio. Come immaginare – diceva – un papa infermo per lungo tempo? Meglio la rinuncia.» Dunque non solo il diritto canonico e la teologia spiegano che il Papato è un ministero ricevuto che non comporta, di per sé, di essere portato avanti fino alla conclusione della vita, anche la storia della chiesa antica e recente. Anche i papi del secolo ventesimo lo sapevano bene, conoscevano la gravità dell’eventuale decisione, ma non escludevano dai loro doveri il considerare, se fosse stato necessario, per il bene della Chiesa, la possibilità di lasciare ad un altro quel ministero così importante e gravoso, ricevuto dalla Chiesa, attraverso i cardinali, su ispirazione dello Spirito Santo, in spirito di obbedienza.
Le forti grida di Gesù, la serenità di Agnese e le lacrime di Emerenziana
Mi tornano alla mente alcuni Salmi: se li leggiamo pensando che sono la rivelazione della preghiera di Gesù, allora i conti tornano. Leggo dei re e dei principi della terra che cospirano contro il Signore e il suo consacrato (salmo 2) e degli avversari numerosi che insorgono contro di lui (salmo 3), come prega nell’angoscia mentre gli uomini calpestano il suo onore (salmo 4), di nemici insinceri e perfidi (salmo 5); chiede pietà e si lamenta (salmo 6): ma sempre, il Signore lo guida, lo benedice, lo esaudisce. E con parole simili in tanti Salmi: nemici e insidie e dolori, preghiera verso Dio che alla fine libera e salva. Com’è umano il nostro Gesù! Dovremmo guardare di più a lui per cercare di capire qualcosa, del mistero del dolore, che ci accompagna. Ascoltavamo dalla lettura anche queste parole: “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. Come uomo, ha imparato il dolore, lo ha assaggiato, come noi e più di noi. Ha sofferto l’angoscia per ciò che lo aspettava, e per ciò che soffriva. Su queste parole Benedetto XVI parlando ai sacerdoti di Roma insegnava :“Questo non è solo un accenno all’ora dell’angoscia sul Monte degli Ulivi, ma è un riassunto di tutta la storia della passione, che abbraccia l’intera vita di Gesù.” (18 febbraio 2010). L’intera vita: durante l’intera vita Gesù ha preso su di sé i nostri peccati, ha saputo e sofferto ciò che lo aspettava.
Gesù in casa di Simone fariseo e la donna peccatrice
Audio Mp3. Trasmissione a Radio Maria del 30 maggio 2002. Commento del brano evangelico narrato dal vangelo di san Luca cap. 7, 36-50, sulla base di un brano del libro Più gioia in cielo. Incontrare Gesù e il suo perdono. All’inizio della trasmissione rispondo a una domanda sull’Opus Dei.