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Il Cardinale Julián Herranz: “In cuor mio ho già canonizzato Benedetto XVI”

Intervista  al quotidiano ABC di Madrid, del 16 febbraio 2013, di Juan Vicente Boo, corrispondente da Roma. Il cardinale Julián Herranz (1930) medico, giurista, sacerdote, montanaro, poeta è figura brillante in molti campi, dal tratto affabile e con il dono della semplicità. Specializzato in psichiatria aveva il progetto di proseguire gli studi in Germania per poter poi seguire la carriera universitaria in Spagna. Il suo attivismo politico durante gli studi lo portò a trascorrere una notte in carcere e a subire interrogatori nei locali dell’antica Direzione Generale di Sicurezza della Puerta del Sol di Madrid. Gli piaceva anche il giornalismo e, cercando informazioni sull’Opus Dei, scoprì la spiritualità di San Josemaría Escrivá e si impegnò a seguirla nel laicato. Fu un incontro che cambiò la sua vita. Successivamente ricevette la vocazione sacerdotale, e nacque in lui una profonda passione per il Diritto Canonico. Iniziò a lavorare al servizio di Giovanni XXIII nel 1960, nell’organismo che si occupava della preparazione del Concilio Vaticano II. Da allora ha lavorato in vaticano al servizio di cinque Papi.. Il suo ultimo servizio a Benedetto XVI è stato presiedere la commissione cardinalizia di inchiesta per il “Vatileaks”. Ritiene che la rinuncia del Papa sia un gesto proprio dell’anima di un santo. Conosce Joseph Ratzinger da 32 anni.
– Eminenza, lei l’11 febbraio scorso si trovava nella riunione dei cardinali durante la quale Benedetto XVI ha comunicato in maniera inaspettata la propria rinuncia. Che cosa ha provato?
– In primo luogo ho reagito da giurista e poi da cardinale. Come canonista sono rimasto sorpreso dalla precisione giuridica con la quale Benedetto XVI agiva e soprattutto da un gesto che non ha nessun precedente nella storia della Chiesa.
– Ma Celestino V nel 1294…
– Non lo si può paragonare alla rinuncia di Celestino V avvenuta sette secoli fa, perché sono persone e situazioni molto differenti. Ho avuto la percezione di essere stato testimone di un fatto unico in duemila anni di storia della Chiesa, perfettamente meditato in tutte le sue dimensioni, sia teologiche che giuridiche.
– E cosa ha pensato come cardinale?
– Come cardinale, come sacerdote e come fedele, ho avuto un moto di tristezza, perché ci lascia una persona con la quale ho lavorato tanti anni e che ammiro profondamente. Allo stesso tempo, ho provato una sensazione come di gioia interiore, di ritrovarmi di fronte a un fatto che rivela una grande santità.
– Per quale motivo?
– Perché è stato un gesto di eroica umiltà e amore per la Chiesa, e quindi per Cristo.

Un gesto che si confà perfettamente all’anima di un santo. E’ un genere di umiltà che oggi non siamo abituati a vedere, in special modo nella vita civile, dove tante persone sono attaccate alla poltrona, al posto di comando…

– Con quale prospettiva i comuni fedeli dovrebbero guardare a questa rinuncia?
– Dal punto di vista spirituale, dovrebbero considerare l’esempio di profonda umiltà di un uomo che ama al di sopra di tutto Cristo e la sua Chiesa. E dal punto di vista umano possono considerarla come una decisione molto ragionevole. Fino a un secolo fa sarebbe stato inconcepibile. Adesso no, perché l’aspettativa di vita è cresciuta molto senza che – e questo lo dico da medico – si riescano a conservare in ugual misura la capacità organica e biologica delle persone.
– Alcuni fedeli obiettano che si possa perdere un po’ il senso di sacralità del Papato.
– Sono convinto che non è così. Il Papa è il vicario di Cristo, che è perfetto Dio, ma anche perfetto uomo: che piange per una vedova alla quale è morto il figlio, e piange per la morte di un amico. Questa perfetta umanità si riflette nell’umanità del suo vicario.
– Altri si preoccupano pensando che Benedetto XVI abbia agito in modo contrario a Giovanni Paolo II, che preferì non rinunciare.
– Vedo la differenza, ma non l’opposizione fra l’agire dei due Papi. In coscienza, davanti a Dio, Giovanni Paolo II considerò che doveva continuare. E in coscienza, pure davanti a Dio, Benedetto XVI ha pensato che, per amore alla Chiesa, doveva fare questo gesto altrettanto eroico e altrettanto santo. Sono due modi diversi di comportamento eroico in momenti diversi della storia della Chiesa. E personalmente ritengo che ciò che ha fatto Benedetto XVI non sia per nulla uno scendere dalla Croce.
– Sarebbe meglio stabilire la rinuncia dei Papi al compimento degli 80 anni, l’età in cui i cardinali della Santa Sede lasciano i loro incarichi?
– Non credo che si debba fissare un limite di età ai Papi. Si tratta di una elezione “ad vitam”, “per tutta la vita”. Ma non bisogna nemmeno trasformarla in una condanna a portare questo peso “per tutta la vita”.
– Dopo il 1° marzo cominceranno le “riunioni generali” dei cardinali di tutto il mondo. Come lavoreranno?
– Nella prima parte delle “congregazioni generali”, alle quali partecipano tutti i cardinali, anche quelli di più di 80 anni, si inizia con l’affrontare questioni di tipo pratico e logistico. Dopo si procede con l’esame della situazione della Chiesa nel mondo. Si ricevono studi sulla situazione in ogni continente, e anche informazioni su determinati argomenti, questioni positive e negative nel panorama dell’evangelizzazione nel mondo. Quindi si discutono possibili soluzioni a un problema o ad un altro… In questo modo, nel definire i compiti che toccheranno al futuro Papa, i cardinali vengono aiutati a pensare come dovrebbe essere l’”identikit”, il ritratto della persona più idonea per affrontare queste questioni.
– Ha fiducia che il Conclave scelga bene?
– Fortunatamente lo Spirito Santo assiste i cardinali nel conclave, e questo si nota. Gli ultimi sei Papi sono state persone di straordinarie doti, sia umane che soprannaturali. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono già sugli altari come beati. E sono in corso i processi di canonizzazione di Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo I. E anche se glielo dico sotto voce e in privato, che in cuor mio ho già canonizzato Benedetto XVI nel mio cuore, lo scriva pure.

Traduzione dall spagnolo di Andrea Mardegan
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Don Valentino Guglielmi. Un ricordo

Era nato a Fumane (Verona) il 3 marzo 1940, è morto a Verona, improvvisamente,  il 5 ottobre 2012, al mattino, al risveglio, alzandosi per andare a celebrare la prima Messa. Nei tre giorni prima del funerale un ininterrotto flusso di persone amate sono corse a a vegliare e pregare, di fronte al suo volto immerso nella luce. Al funerale, celebrato dal Vescovo di Verona, erano presenti cento sacerdoti, e più di mille fedeli raccolti e commossi. Uno di loro, che lo ha conosciuto nell’ultima parrocchia a lui affidata, ha scritto questo ricordo. Spero di poter più avanti offrire alcuni dei suoi illuminanti scritti, che in vita era restio a pubblicare, nonostante i nostri pressanti inviti. Ha lasciato molti appunti manoscritti. Ho imparato molto da lui, ho riso molto alle sue battute folgoranti, nei miei anni di Verona, ho goduto insieme ad altri amici sacerdoti di una fraternità sacerdotale vera, forte e gioiosa, ho attinto al suo amore di Dio, al suo zelo di pastore di anime, alla sua intelligenza superiore. Al termine di questo ricordo un suo breve percorso biografico.


Fu un’amica a segnalarmi che nella parrocchia di  Sant’Eufemia a Verona c’era, non da molto, un prete che dicevano bravo. Andammo insieme a “provarlo”, alla messa della domenica sera. La chiesa era piena a metà e, tutto considerato, visto che si tratta della chiesa più grande della città, la cosa sembrava incoraggiante. Quello che mi apparve insufficiente fu lui, don Valentino: una gran testa di capelli grigi, un profilo da antico romano, un uomo dall’aspetto molto gradevole, ma piccolo, affondato nei paramenti, quando girò dietro all’altare –un grande tavolone di marmo bianco – quasi scomparve. Recitò le prime preghiere con voce lenta, compassata, con tono così sommesso che a volte facevo fatica a udirlo. Mi stavo rassegnando ad ascoltare una messa anodina, insapore, addirittura soporifera come a volte capita. Ma al momento dell’omelia, quando avanzò fino al pulpito, il piccolo don Valentino crebbe inaspettatamente, prese il dominio della navata.

Non mutò per nulla il tono di voce: niente oratoria roboante o effetti retorici di quelli usati –anche giustamente- da molti celebranti, ma pensiero incisivo e esattezza di esposizione. Estrasse, dalle letture del giorno, concetti impegnativi, tanto che mi domandai –presuntuosamente- quanti tra gli astanti stavano effettivamente seguendo quel discorso che, dipanandosi, assomigliava sempre più a una lezione di teologia. Ma dopo qualche minuto, percependo intorno a me una grande attenzione, capii che la sapiente semplicità con cui don Valentino ci guidava in temi complessi, li rendeva comprensibili. E c’era di più: sentivo che le sue parole, entrandomi nella mente, vi smuovevano qualcosa, minavano il pigro equilibrio della mia coscienza. Le sentivo lanciarmi una sfida: prova, adesso, a riassopirti, dicevano, prova a rifugiarti nelle solite formule consunte e rassicuranti. Prova a continuare tranquillo nella tua routine. Pendevo dalle sue labbra e, con me, tutta l’assemblea. Quando ebbe ottenuto l’apice dell’attenzione chiuse la predica con uno schiocco improvviso, una frustata, si girò, andò all’altare e iniziò il Credo. Avevo incontrato, quella sera di una domenica d’autunno, uno degli uomini più straordinari della mia vita. Ci vuole un po’ di tempo ed è necessario ascoltare più di una omelia, per apprezzare un bravo predicatore. E infatti fu dopo tre o quattro messe, superati certi miei schemi mentali, che cominciai a intuire –era solo un sospetto per il momento- le profondità verso cui quel piccolo prete ci attirava pian piano, senza apparentemente sospingerci, senza volerle imporre, ma solo indicandocele, mostrandocene, in lontananza, la possibilità. Dopo un paio di mesi attendevo la domenica sera con impazienza, come un appassionato di calcio aspetta i risultati della squadra favorita. La differenza era che con don Valentino perdevo tutte le partite: era sempre lui a vincere. Era lui a fare gol. La porta in cui, domenica dopo domenica, insaccava i suoi tiri magistrali, era il mio cuore. Eppure don Valentino non era un sentimentale. L’invito che ci rivolgeva con le sue omelie perforava l’involucro umido, emotivo, della psiche, e cercava invece quello strato profondo e misterioso, dove la razionalità e la sensibilità di ognuno si incontrano alle rispettive sorgenti, “Dove l’uomo è più solo e dove è più uomo” come scriveva, e che a volte identificava con il concetto agostiniano di “Cuore”. Una volta toccato, questo “cuore” –il mio come, credo, quello di tutti gli altri- non poteva più restare indifferente. Alcune sue omelie, pronunciate con quel ritmo lento e quel tono di voce pacato che erano suoi, si stampavano nella memoria come incisioni al laser nel bronzo. Ricordo una sera d’inverno in cui parlò della preghiera, ci invitò a rivolgerci a Dio come a un padre, con la fiducia, la confidenza e l’insistenza dei figli che sanno bene, fin da piccoli, come il papà non può e non vuole sottrarsi dal far loro tutto il bene possibile. “Voglio Te!” esclamò alla fine e, cosa insolita per lui, alzò gli occhi e perfino una mano per enfatizzare il concetto, “Ti voglio tutto! Non mi accontenterò di nulla di meno che di Te!” Poi si girò e andò all’altare a recitare il Credo.  La sua idea di Cristianesimo, così come la andavo deducendo, domenica dopo domenica, dalle sue omelie, era agli antipodi di quel sistema di regolette morali, di pie pratiche e di sospiri svenevoli che a volte passa per religione. La proposta cristiana era per lui una sfida, un cimento, un’impresa nobile e virile. “Invochiamo la Santa Vergine perché ci aiuti nell’impresa” e “Preghiamo lo Spirito Santo perché aumenti le nostre forze e ci sostenga nell’impresa”, erano le chiusure più ricorrenti delle sue prediche. Potevano sembrare esortazioni di un capitano di ventura rivolte ai suoi cavalieri in procinto di una battaglia, e lo erano in un certo senso, sempre che si tenga presente che la guerra in cui don Valentino ci guidava era contro la nostra pigrizia, e che le armi di cui ci voleva dotare erano l’umiltà, la carità, l’attenzione all’altro  la volontà di non giudicare. Ma la sua visione del Cristianesimo era dotata di un’architettura troppo poderosa perché nelle omelie potesse lasciarsi conoscere completamente. Fu la stessa amica che vinse qualche mia resistenza e mi persuase a prender parte agli incontri settimanali di catechismo. Ci arrivai con un bagaglio di pregiudizi e perfino una punta di sufficienza. Bastò mezz’ora per fare strage di quei miei atteggiamenti. Se dal pulpito il piccolo prete dominava con la sua potente semplicità, nelle riunioni di catechismo, cui partecipavano dalle due alle dieci persone al massimo, don Valentino si imponeva per la delicatezza con cui ci faceva dono dei tesori della sua personale, finissima, ricerca spirituale. Anche qui, come dal pulpito, che commentassimo l’inquietante S. Paolo o il Qohelet, Sant’Agostino o un’enciclica del Papa, la sua capacità di sintesi ci restituiva i testi in una forma così semplice da renderceli subito familiari. Certo, veniva da pensare, è logico, è questo il significato. Come accade solo con le idee veramente luminose, mi sembrava di aver sempre saputo che il senso di un testo sacro fosse quello; solo dopo un po’ mi rendevo conto che non era così e mi meravigliavo della mia miopia. “Un uomo che si avvicina a Dio è come un uomo che va alla fonte con un secchio”, diceva. “Non può sperare di mettere tutta la sorgente nel secchio; ma può riempire il suo secchio di Dio.” Quindi taceva, lasciava sedimentare quel concetto nei nostri animi, sorrideva con un’aria amabile e furbesca (sapeva bene di aver colpito nel profondo), poi riprendeva: “Ora, se il nostro secchio è pieno di detriti, sarà poca l’acqua che potremo metterci. Conviene quindi, prima di accostarci alla fonte, svuotare e ripulire il secchio.” E quindi? chiedevamo. “E quindi Dio è la fonte, il secchio è il nostro cuore. Se vogliamo accogliervi Dio, dobbiamo prima svuotarlo e presentarci a Lui nudi e semplici, come bambini.” E cosa sono i detriti? domandavamo a questo punto.

I detriti sono il nostro orgoglio. Per cui la prima cosa che mi converrà fare sarà di capire che io non mi sono fatto da solo. Non sono venuto al mondo per mia volontà, ma è Dio che mi ha donato a me stesso, attraverso l’intervento dei miei genitori, che hanno agito da pro-creatori. Sono nato da un atto d’amore cui non ho partecipato, segno presente dell’amore di Dio per me. Accettandomi come creatura svuoterò il mio secchio dai detriti dell’orgoglio.” Restavamo muti, quasi spauriti da quelle profondità. Era però un peso fertile: come un sacco di sementi gettato in terra, durante la settimana germogliava e produceva i suoi frutti. Il mercoledì successivo andavo ad ascoltare il seguito con avidità. Spesso prendeva il via dalla vicenda della donna adultera (Gv. 8,3-11), una delle sue predilette, per approfondire il medesimo concetto: “Ognuno di noi vede gli altri come riflessi in uno specchio in fondo a un pozzo. Questo specchio è il nostro cuore. Gesù che, da vero signore qual’era, si alzò in piedi quando ebbe davanti la donna, la vide riflessa nel proprio animo. Questo, privo di qualsiasi impurità, gli restituì l’immagine di quella peccatrice come figlia di Dio, somigliante a Dio. Gesù vide in lei l’invisibile. Anche la donna, dopo essersi vista come oggetto negli occhi dell’amante, come colpevole in quelli del marito e dei giudici, si vide riflessa negli occhi del Signore. E improvvisamente si scoprì come mai si era immaginata. Figlia di Dio, amata non per quello che rappresentava, ma per lei stessa.” E quindi, chiedevamo con un filo di voce. “E quindi converrà che noi seguiamo l’esempio del Signore. Che impariamo a vedere nell’altro l’invisibile. Che impariamo a non giudicare.”  Ma gli altri hanno dei difetti, a volte ci fanno perfino del male, protestavamo. Oppure: don Valentino, non può chiederci di ottundere la nostra capacità di giudizio sugli altri, obiettavamo, necessaria per vivere, e che a volte fa perfino parte dei nostri doveri. “Non si tratta di non capire, di intontirsi,” rispondeva, “ma di acuire il nostro sguardo, di imparare a vedere oltre lo strato dei pregi e dei difetti. Si tratta di imparare le persone.” Nel silenzio pensoso che seguiva, citava una frase di Giovanni Paolo II: “Ti sto imparando uomo, ti imparo piano piano. Di questa dolce fatica, soffre e gioisce il cuore.” Mi sembra una cosa sovrumana, commentava qualcuno. “Lo è”, ammetteva lui. E allora? “Ci viene in aiuto la Grazia. Per questo non dobbiamo stancarci di chiederla allo Spirito Santo.” E come si fa a ottenerla, questa benedetta grazia? “Svuotando il secchio,” precisava, e sorrideva, arguto e simpatico, come un compagno di scuola più vecchio che svela le regole e i trucchi del gioco ai bambini più piccoli. E le fonti? Dove sono le fonti? Chiedevamo esasperati. “Le fonti sono le persone”, concludeva implacabile. “Le fonti sono gli altri.”  Improvvisamente, nelle sue spiegazioni, le parole delle Scritture, sentite fin da bambino in chiesa e al catechismo, recepite automaticamente, sedimentate senza veramente capirle, vincevano le resistenze della mia mente di adulto e prendevano senso. Grazia, Spirito Santo, immagine e somiglianza di Dio, Fede, Speranza, Carità. Astrazioni che, raccontate da lui, si facevano di sangue e di carne. Diventavano gli altri: questa signora, seduta accanto a me, e di cui ignoravo il nome e la storia; quel passante sconosciuto che mi aveva chiesto qualcosa per strada; mia zia, che non sopportavo. Tutti costoro andavano “imparati”. Erano occasioni per la mia crescita, gradini sul cammino della mia perfezione. Della mia felicità.  Riportate in questa forma abbreviata, me ne rendo conto, le lezioni di catechismo potrebbero sembrare a qualcuno troppo scolastiche. Non era così: con dolcezza e umanità, don Valentino ci conduceva nelle profondità elementari e sconvolgenti del messaggio cristiano senza mai dimenticare di aver davanti non un uditorio, ma delle persone, ognuna diversa dall’altra, ognuna unica.  Celava, dietro la sua discrezione, una cultura vastissima. Quando lo interrogavamo su argomenti storici o filosofici o teologici, rispondeva sempre esaurientemente. Apprendemmo con il tempo che le sue letture, che lui dichiarava succinte e insufficienti, andavano ben oltre una normale preparazione sacerdotale e spaziavano dai mistici bizantini a quelli buddhisti, ai classici latini e greci, alla filosofia e alla poesia. Avrebbe potuto trasformare gli incontri in altrettante occasioni culturali, eccitanti, brillanti. Avrebbe potuto esercitare su di noi un fascino straordinario, conducendoci a spasso nelle praterie vaste del suo sapere, facendoci divertire. Invece, dopo aver accontentato la nostra curiosità, ritornava al filo del suo discorso, al tema a lui più caro: il nocciolo della proposta cristiana. Cioè: all’esercizio della carità. Non ci permetteva mai di allontanarci troppo da questa “pietra d’inciampo”. “Imparare le persone della mia vita, vedere in loro l’invisibile, è la cosa che più mi conviene.” Perché, chiedevamo, sapendo già che ci sarebbe arrivata in testa un’altra tegola spirituale. “Non esistono al mondo due persone identiche. Ogni persona è una parola uscita dalla bocca di Dio, unica e irripetibile. Quindi ogni persona è preziosa. Possiede quel che a me, incompleto, manca. Se voglio dare un senso alla mia vita, se voglio crescere, non mi resta che acquisire questo qualcosa che mi manca. Per averlo non posso contare sul possesso materiale, cioè comprando la persona, né su quello psicologico, che si esercita con il fascino, ma sulla vera conoscenza. Questa la ottengo solo con l’attenzione. Attenzione all’altro, la via che conduce alla vita cristiana è tutta qui.” Saper vedere l’invisibile, commentava qualcuno. “Si, chiedendone la Grazia allo Spirito Santo.” Attenzione all’altro? Tutto qui?  “L’attenzione è sinonimo di carità. La quale non è l’elemosina, né il volontariato, né la gentilezza: tutte cose lodevoli, ma che non sostituiscono la carità. Quando ho prestato attenzione all’altro, ho veduto in lui l’invisibile, ho riconosciuto in lui quello che a me manca, non posso non volere il suo bene e non operare per esso. Perché solo cercando il bene dell’altro, che è un altro me stesso, faccio bene a me.” In lui non c’era traccia di quel fare obliquo e sfuggente che generalmente chiamiamo  “pretesco”. Lo spirito indipendente, lo sguardo chiaro, la schiena dritta, lo si poteva immaginare benissimo nei panni di un primario di chirurgia, di un professore universitario, di un filosofo, di un antico senatore romano. E la sua libertà di pensiero ne faceva un sacerdote, se è possibile, “laico”, il che non contraddiceva in niente il grande rispetto che aveva per la Chiesa, la solennità che mostrava nei riti, e l’affetto che professava per il Papa. Con lui si potevano affrontare gli argomenti più spinosi: la sessualità, l’ateismo, il diavolo, le malefatte della Chiesa, la libertà, l’eresia. “Nel sesso, che ci viene da Dio, non è insito nessun male,” sosteneva. “E’ quando tratto l’altro come un oggetto, o quando ne profano la sacralità, quando ci gioco, che insulto il dono della sessualità e me ne faccio infangare.” Ma come dev’essere la vita del cristiano riguardo al sesso, chiedevamo. La sua risposta non poteva includere schemi già conosciuti. “Dobbiamo mettere insieme i sensi con il cuore,” rispose infatti, “I sensi con il cuore.” E una volta in cui gli chiesi spiegazioni sul titolo “Ianua Coeli” attribuito alla Madonna, spiegò: “Le Iaunae Coeli sono due: la Porta attraverso cui noi saliamo in cielo è il Signore Gesù Cristo. Quella attraverso cui il Cielo è sceso sulla terra è la Madonna…” Un’altra volta, al termine di una riunione particolarmente animata, di quelle che a lui piacevano di più, in cui si era discusso sul senso dell’essere cristiani oggi, concluse: “Che poi, nella sua vera essenza, il Cristianesimo non è neppure una religione.” L’aveva detto quasi sottovoce, guardando per terra, come se non volesse scioccarci con quella enunciazione, davvero sorprendente da parte di un prete cattolico in una lezione di catechismo. E cosa è il cristianesimo, allora, chiesi. “E’ un incontro,” rispose sussurrando, “un personale, intimo, incontro tra me e Gesù”.  Ma i temi su cui la sua umanità si esprimeva pienamente erano quelli esistenziali della difficoltà di vivere: il dolore, la solitudine, la paura della morte. “Il giorno di Pentecoste lo Spirito Santo si divise in tante fiammelle quante erano le persone convenute, a segnare che lo Spirito era li, con ognuno di loro, tutto per ognuno di loro. Anche per noi ogni persona dev’essere come per lo Spirito Santo: unica e preziosa. Allo stesso tempo lo Spirito, dividendosi in tante fiammelle, è venuto a dirci che ognuno di noi è prezioso ai suoi occhi, che l’amore di Dio è tutto con noi, con ognuno di noi.” E anche: “Tra miliardi di volti, lo Spirito Santo riconosce il mio. Tra miliardi di voci, distingue la mia voce. Per questo, quando prego Dio, so di avere tutta la sua attenzione.” D’un tratto, dopo aver sentito questa semplice spiegazione, la mia fede nella solitudine della condizione umana si incrinò, e non tornò più la stessa. Bisognerebbe dire, per completezza, di don Valentino scrittore e poeta, ma i suoi scritti sono talmente eccelsi da scoraggiare anche una breve incursione. Rimando perciò alla lettura dei due libretti “Raccontare l’amore” e “Ti amo”, in attesa che venga alla luce un’edizione completa delle sue riflessioni spirituali e delle sue poesie. Attendiamo anche la trascrizione degli appunti delle lezioni di catechismo. C’era però un altro don Valentino, un don Valentino che, senza transigere dalle sue idee vigorose, mi accoglieva con tale affettuosa attenzione da rendermi desiderabile di accostarmi con frequenza al più ostico dei sacramenti cattolici: il don Valentino confessore. Con sensibilità mi lasciava parlare, si metteva in atteggiamento d’ascolto. Mi imparava. Poi, dopo un attimo di riflessione, mi dava la sua risposta, sempre sorprendente: non erano moniti, né enunciazioni di regole, né inviti generici al buon comportamento, ma tagli di lama nel velo che offuscava la mia vista: “mi piace pensare,” disse una volta in cui dovevo essergli sembrato ansioso e insoddisfatto, “Mi piace pensare che la vita non sia una corsa. Mi piace pensare che la vita sia ritmo.” E un’altra volta in cui, dissi, mi riusciva difficile riconoscere che le ragioni degli altri erano valide quanto le mie: “Non sono le ragioni dell’altro che ci conviene capire, è l’altro. Non dobbiamo approvare le sue ragioni: ma imparare la persona.
Aveva un modo discreto di manifestare l’affetto, senza mai deflettere dall’aplomb richiesto dal rapporto sacerdote-fedele e, nel mio caso, confessore-fedele: quando lo andavo a salutare prima della messa sorrideva, sporgeva la mano, “Che piacere vederti,” diceva e poi, con l’aria di scusarsi per la povertà intellettuale della proposta: “Ci sarebbe la prima lettura da fare… ho già dato via l’epistola…”. Dopo il suo infarto, la scorsa estate, gli raccomandammo di riguardarsi, di dire messa senza la pesante pianeta, di chiedere un aiuto in curia. Ci sorrise, come se stessimo scherzando. Gli chiedemmo se non lo affaticassero gli incontri di catechismo, se per caso non volesse sospenderli per un po’. “No, no, protestò: questi incontri per me sono vita!” Sembrava addirittura indignato dall’idea. Ha continuato a prestare il suo servizio imperterrito, senza mancare un impegno, prodigandosi per la parrocchia, sempre attento e disponibile con tutti, non ultimi i numerosi immigrati che si radunavano tra i banchi della chiesa ogni sera in cerca di un aiuto. Lo hanno visto, una mattina, dire la messa delle sette con un velo di sudore sul viso. “Non è niente, un po’ di influenza,” ha risposto a chi si preoccupava. Alla messa delle dieci apparve arrossato, sofferente. “Dopo riposerò un poco,” ha sorriso. Al catechismo dei bambini, nel pomeriggio, aveva la febbre alta. La sera alle sette celebrò la sua ultima messa. Durante la notte, verso il mattino, Dio lo chiamò a sé. “Signore,” mi faceva sempre ripetere alla fine di ogni confessione, “Io sono piccolo. Dammi una pagina nuova: io ricomincio.”
L.S. Verona, 20 novembre 2012

Don Valentino Guglielmi è stato ordinato sacerdote il 28 giugno 1964. Vicario Parrocchiale a Garda (1964-1966)Insegnante al seminario di San Massimo e collaboratore nella parrocchia di San Pancrazio in Verona. Licenza in teologia dogmatica a Venegono nel 1968. Docente allo studio teologico san Zeno. Licenza in teologia liturgica al Pontificio istituto Liturgico Sant’Anselmo di Roma. Confessore nella parrocchia di San Luca in Verona. Parroco a Marzana di Valpantena (1981-1988), a Zevio (1988-1994), a San Pietro di Lavagno (1994-2003), a sant’Eufemia in Verona (2003-2012). Pochi giorni dopo l’ordinazione chiese di entrare a far parte della Società Sacerdotale della Santa Croce, associazione di sacerdoti diocesani unita alla Prelatura dell’Opus Dei, da cui ricevono aiuto spirituale per santificarsi nel loro ministero uniti al loro presbiterio e con piena obbedienza al loro Vescovo diocesano.

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La Madonna, Madre della nostra fede


Omelie di don Matteo Fabbri per la Novena all’Immacolata, 
Duomo di Milano, 29 novembre- 7 dicembre 2012

I giorno: 29 novembre:

Sia lodato Gesù Cristo!
         “Rallegrati, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te. Oracolo del Signore. Nazioni numerose aderiranno in quel giorno al Signore e diverranno suo popolo, ed egli dimorerà in mezzo a te e tu saprai che il Signore degli eserciti mi ha inviato a te.”[1].
Queste parole profetiche, appena proclamate, possono costituire il portico di ingresso nella
Novena che oggi inizia, per onorare, come ogni anno, l’Immacolata.
Il profeta Zaccaria si riferisce in maniera immediata alla figlia di Sion, alla personificazione del popolo eletto, alla città Santa. Ma siamo evidentemente di fronte a un esempio di “parole in attesa”, secondo la bella espressione di Benedetto XVI[2]: l’oracolo del profeta trova il suo pieno compimento nel fatto della Incarnazione; quello è il momento in cui i tempi messianici si compiono. E si compiono in Maria Santissima. I magnalia Dei, le grandi meraviglie di Dio, si realizzano nella giovane Vergine di Nazaret, al di fuori di ogni previsione possibile agli occhi umani.
E ciò che rende possibile il compimento dei piani divini è la risposta di fede della Madonna. Possiamo dire senza titubanze che il primo ritratto che il Vangelo ci offre della Santissima Vergine è quella esclamazione di Elisabetta, nel momento della Visitazione: “Beata colei che
ha creduto!”[3]. La Madonna è colei che ha creduto più di tutti, ma anche colei che ha creduto prima di tutti. È la sua fede che rende possibile la nostra; è il primo anello di una catena alla quale noi pure apparteniamo.

Non è sfuggita a nessuno di noi la circostanza che quest’anno il nostro incontro mariano è come incastonato nell’Anno della fede. Appare quindi del tutto logico meditare in questi giorni sulla Madonna come donna della fede. È il Pontefice che ci invita a farlo, nel Motu proprio Porta fidei, echeggiando l’andamento del capitolo undicesimo della Lettera agli Ebrei: “Per fede Maria accolse la parola dell’Angelo e credette all’annuncio che sarebbe divenuta Madre di Dio nell’obbedienza della sua dedizione…”[4].
Viviamo in un tempo in cui, lo sappiamo bene, credere non è facile. Siamo circondati dal relativismo, che tende a vedere in ogni affermazione veritativa e in ogni certezza una intolleranza. Molti arrivano addirittura a confezionarsi una fede a proprio gusto, una fede “fai da te”[5], o considerano il riferimento al sacro come una sorta di abbellimento della propria vita, un ornamento grazioso, se non addirittura come un elemento utile per il proprio benessere: ricordo un amico teologo che, addentratosi in una libreria generica si mise a cercare lo scaffale dedicato a “religione” (o almeno a “religioni”); il suo sconcerto fu notevole nel rendersi conto che la religione era considerata un settore del “fitness”.
Di fronte a questo pervasivo clima culturale vogliamo ricordare con forza quanto il nostro Card. Arcivescovo ci scrive all’inizio della Lettera pastorale Alla scoperta del Dio vicino, dedicata come ben sappiamo proprio all’Anno della fede: “La fede cristiana è generata e alimentata dall’incontro con Gesù, verità vivente e personale: è risposta alla persuasiva bellezza del mistero più che esito di una ricerca inquieta, è fiducia nutrita dall’incontro con il Signore più che una scelta causata dalla sfiducia nelle risorse umane e da uno smarrimento che non trova altra via d’uscita”[6]. Ebbene, questo incontro con Gesù, diciamolo con forza, anche per ciascuno di noi passa attraverso la Madonna e la sua fede. In altre parole, la fede non è frutto della nostra sensibilità interiore, per quanto spiccata essa possa essere. La fede è un incontro vivo con Cristo, la fede è apertura del nostro cuore, la fede è dono dall’alto.
E allora, di fronte alla crisi di fede che ci circonda, di fronte alle difficoltà personali, ma anche di fronte all’appello e alla chiamata che il Papa rivolge a tutti i cristiani con l’Anno della fede, rispondiamo tornando alle radici della nostra fede. E queste radici sono mariane!
È la fede della Madonna che sta all’inizio e si pone come fondamento della fede della chiesa nascente. È la fede della Madonna che si colloca al sorgere della fede di ciascuno di noi.
La Santissima Vergine ci mostra l’atteggiamento primordiale della fede: ascoltare e custodire la parola che Dio ci rivolge.
Quanto abbiamo da imparare! Ascoltare e custodire la parola di Dio. E quanto volte invece noi siamo preoccupati di riuscire ad esprimere con autenticità i nostri sentimenti e il nostro pensiero. Quanto ci preoccupiamo di parlare e di “spiegarci”, di comprendere e di capire. Nella fede il principio è più semplice: è la risposta. Dio ci viene incontro in Cristo, attraverso la sua Chiesa: nei Sacramenti, nella Liturgia domenicale, nella Parola di Dio proclamata o meditata personalmente, nella Tradizione viva della Chiesa, nella nostra santa dottrina cristiana. Si tratta di accogliere e meditare tutto questo e di custodirlo nel cuore. Con parole del Pontefice: “È possibile oltrepassare quella soglia [la Porta della fede] quando la Parola di Dio  viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita”[7].
La Madonna ci insegna proprio questo. In quel momento meraviglioso, atteso dai secoli, in cui l’Angelo le si presenta e le riferisce il messaggio che diverrà la Madre di Dio, Ella semplicemente risponde di sì, e con questo sì apre anche a ciascuno di noi la strada. San Josemaría, fondatore dell’Opus Dei, descriveva così quell’evento: “Oh Madre, Madre!: con quella tua parola – Fiat – ci hai reso fratelli di Dio ed eredi della sua gloria.  Sii benedetta!”[8].
Ma la fede della Madonna non è solo un’adesione iniziale. Essa cresce lungo tutta la sua vita, sui passi della vita di Cristo. La sua presenza, dalla Incarnazione alla Nascita fino alla Croce e alla Risurrezione, è tanto discreta quanto reale e fondamentale.
E non è una presenza esteriore, accidentale. È una presenza materna. Ella è a Cana, all’inizio dei “segni” compiuti da Gesù: e questo momento non è solo l’inizio della manifestazione della gloria di Gesù; è anche, inseparabilmente, l’inizio della fede dei discepoli. È Giovanni, infatti che nota, dopo il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, che “i suoi discepoli credettero in Lui”[9]: la fede dei discepoli è quindi frutto della richiesta della Madonna: Ella, che già vive di fede, contribuisce a generare la fede dei discepoli. Ancora più evidente è il suo ruolo materno ai piedi della Croce. Il dialogo che Giovanni, testimone oculare e protagonista, ci riferisce, non cessa anche oggi di interpellarci: “Donna, ecco tuo figlio. (…) Ecco tua Madre”[10]. Già il beato Giovanni Paolo II commentava così questo passo, nell’enciclica Redemptoris Mater: “questa nuova maternità di Maria, generata dalla fede, è frutto del nuovo amore che maturò in lei definitivamente ai piedi della Croce, mediante la sua partecipazione all’amore redentivo del Figlio. (…) La sua presenza discreta, ma essenziale, indica la via della nascita dallo Spirito. Così Colei che è presente nel mistero di Cristo come madre, diventa – per volontà del Figlio e per opera dello Spirito Santo – presente nel mistero della Chiesa. Anche nella Chiesa continua ad essere una presenza materna, come indicano le parole pronunciate sulla Croce: Donna, ecco il tuo figlio; Ecco la tua madre”[11].
Come la Madonna è presente, per così dire dal di dentro nel mistero della Incarnazione Redentrice, così Ella è presente “dal di dentro” nella nostra vita di fede, in questo personalissimo incontro con Gesù che è la sostanza della fede di ciascuno di noi. Ella ci aiuta così a non confondere la nostra fede con una semplice aspirazione soggettiva o con un pio sentimento; Ella ci mostra che la nostra fede (come la sua!) è chiamata a diventare vita. Ella ci indirizza verso Suo Figlio, il nostro Redentore.
Ecco allora che semplicemente non ha senso considerare non attuale la devozione mariana, concepirla cioè come qualcosa che in una presunta maturità della fede dovrebbe essere abbandonata e lasciata alle spalle. Tutt’altro. La prova ne viene anche dalla vita dei santi, che brillano come luci vicine nel nostro firmamento: pensiamo a quel grande innamorato di Maria Santissima che è stato il nostro amato Papa Giovanni Paolo II: il riferimento alla Madonna innervava letteralmente tutta la sua vita di preghiera e anche la sua azione pastorale.
Egli ha rafforzato la nostra fede, come l’apostolo Pietro (“et tu confirma fratres tuos”[12]) proprio attraverso la devozione mariana. Ricordo di aver sentito da uno dei partecipanti il racconto di una riunione tra i membri di alcuni Dicasteri della Curia Romana, presieduta dal Papa polacco, nella quale si stava prospettando una situazione davvero difficile e dolorosa per la Chiesa intera. Al termine della esposizione del relatore, il Papa, allora ancora giovane e vigoroso, battè un pugno sul tavolo, dicendo con forza: “sed Ipsa conteret!” (Ella schiaccerà la testa del dragone infernale[13]).
La Madonna è luce anche per la nostra fede. Vogliamo e possiamo vivere questi giorni onorandola, sapendo che così non ci limitiamo ad alimentare una devozione sentimentale: rafforziamo piuttosto le fondamenta della nostra fede.
E anche in questo non siamo soli. Viviamo la nostra fede nel grande “noi” della Chiesa intera, nella grande Tradizione di due millenni. E con gioia, con sicurezza, con maturità, facciamo nostre tutte le devozioni di sempre, che continuano a restare pienamente attuali. Penso adesso al Santo Rosario, che abbiamo recitato prima di questa celebrazione. Come anche il nostro Cardinale ci diceva lo scorso anno, possiamo recitarlo sempre, ogni giorno. E se gli impegni professionali e familiari ce lo rendono difficile, possiamo sgranare almeno una decina in tram, in Metropolitana, per la strada. Non è vero che il Rosario è preghiera passata di moda! Non è vero che è noioso e ripetitivo: è una questione di amore! Anche gli innamorati si ripetono sempre le stesse cose!
San Josemaría nel 1970 si recò in Messico, davanti alla Vergine di Guadalupe, per pregare per la Chiesa intera e per l’Opera da lui fondata per ispirazione divina. Furono giorni di appassionata preghiera filiale, in cui tra l’altro diceva: “Monstra te esse matrem (mostra che sei nostra Madre[14])… e non rispondermi “monstra te esse filium”, perché non so che altro posso fare.” Parole commoventi, che scaturivano da un cuore innamorato di Maria e della Chiesa, un cuore che si affidava totalmente tra le braccia di Dio Padre, aiutato e condotto dalla Madonna.
Noi non siamo all’altezza di questi santi, ma siamo figli esattamente come loro. Non abbiamo la forza di Giovanni Paolo II, ma anche noi possiamo affermare come lui “Totus tuus”!
Ci rivolgiamo alla Madonnina che dall’alto del nostro Duomo, presiede e vigila sulla nostra città; è davvero Turris civitatis, torre di guardia, che custodisce noi suoi figli. A Lei chiediamo in ginocchio: in questi tempi difficili, aiutaci a credere e ad amare con tutto il cuore!
Che bello essere figli di Maria e della sua fede!





[1] Zc 2, 14 – 15 (II Lettura della Messa).
[2] J. Ratzinger – Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli – LEV, Milano – Città del Vaticano 2012, pp. 26 – 27.
[3] Lc 1, 45.
[4] Porta fidei, n. 13.
[5] È il Papa stesso che usa questa espressione: cfr. Omelia 21-VIII-2005.
[6] Alla scoperta del Dio vicino, n. 2.
[7] Porta fidei, n. 1.
[8] Cammino, n. 512.
[9] Gv 2, 11.
[10] Gv 19, 26 – 27.
[11] Lett. Enc. Redemptoris Mater (25-III-1987), n. 23 – 24.
[12] Cfr. Lc 22, 32.
[13] Cfr. Gen 3, 15.
[14] Inno Ave maris stella.

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Pietro e Giovanni, due apostoli, due diversi destini pensati e spiegati a loro da Gesù.

Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi». Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?». Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.

Quando sarai vecchio tenderai le tue mani.  Gesù predice a Pietro Il martirio, una morte come la sua, sulla croce. E’ tenuto a farlo? No, ma lo ritiene utile per Pietro, per prepararlo. Gesù, se vuole fa queste cose. Predice. Prepara. Illumina, in previsione, le persone a cui dà importanti incarichi nella sua Chiesa. E Pietro si volta a guardare Giovanni. Pietro, ha maturato un’attenzione a Giovanni tutta nuova, negli ultimi giorni. Lo conosce da tanto tempo, sono dello stesso paese, della stessa impresa di pesca. Erano discepoli di Giovanni il Battista. Ma negli ultimi giorni, quelli dell’ultima cena, della preghiera nell’orto degli ulivi, la cattura di Gesù, il processo, la croce, e quella mattina di corsa a vedere cos’è successo ne sepolcro, ha imparato a guardare Giovanni in un modo diverso. In quella cena discutevano su chi fosse tra loro il più importante, e Gesù gli ha spiegato che chi tra loro è più grande deve essere come colui che serve. Poi la lavanda dei piedi, nella quale lo ha rimproverato perché non vuole lasciarsi servire. Poi Giovanni che gli obbedisce e chiede a Gesù, e ascolta dalle sue parole, chinandosi sul suo petto, il nome di colui che lo tradirà. Da quando Pietro ha rinnegato Gesù nella casa del sommo sacerdote mentre Giovanni in quella casa entra ma rimane fedele, e non scappa dalla croce ma rimane là sotto ad accompagnare Maria, la madre, e la riceve da Gesù come madre per se e per noi. Da quella mattina di Pasqua nella quale Giovani corre più rapido di lui, ma poi lo aspetta, pieno di rispetto per il suo primato, per lasciarlo entrare nel sepolcro vuoto. E Giovanni vede e crede nella risurrezione di Cristo, mentre lui Pietro rimane perplesso. A partire da tutte quelle cose di tutti quei giorni,

  indimenticabili e sconvolgenti, Pietro guarda a Giovanni con stupore, senza più quella punta di invidia per la sua giovane età, per la predilezione di cui lo circondava il  Maestro, che lo aveva come suo discepolo prediletto ed era a tutti evidente, forse perché era deciso a seguirlo donandosi del tutto, come Gesù, nel celibato. Lo guarda senza più il rancore che invece lo aveva invaso quando Giovanni tentò, con Giacomo suo fratello, di ottenere di nascosto il privilegio di sedere uno alla destra e l’altro alla sinistra nel regno di Cristo, di essere loro due i più importanti, cercando di scalzare lui che era chiaramente il primo e il più grande tra loro, quello a cui Gesù aveva detto, “tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”. Anche quella mattina, dopo la notte inutile di pesca, è stato Giovanni a riconoscere il Signore per primo, ma poi gli ha detto: “Pietro, guarda:  è il Signore, vai tu, portiamo noi a terra i pesci!”. Gli lascia il primato, lo lascia comandare. Nonostante che Pietro abbia rinnegato, in quella notte dei tradimenti, Gesù. Pietro è ammirato, quel ragazzo ha qualcosa di grande, cosa farà nella vita? E’ così più in gamba di me! E’ mai possibile che Gesù non dica adesso a noi due: che sia lui la pietra su cui costruisco la mia Chiesa, tu fatti da parte. Pietro ha conosciuto il suo futuro, ed è curioso di sapere che progetto ha Gesù su Giovanni, il discepolo amato. Di lui che sarà? Sarà il mio successore nella guida della chiesa? Come è possibile che con tutta la sua predilezione e tutti i comportamenti eccezionali di questi giorni, non scelga lui come capo della chiesa? O almeno come mio primo successore? E se lo predilige come il discepolo amato, perché non da anche a lui il privilegio di seguirlo fin sulla croce? Per questoPietro si volta. Lo calamita la persona di Giovanni. Lo interroga. Dov’è, cosa sta facendo? Come fa ad essere così attento  e così profondo? E Gesù lo corregge ancora una volta: lascia stare, non devi confrontare la sua vita con la tua, siete diversi , avrete destini e compiti diversi, entrambi miei testimoni. Ma avrete due fine vita diversi. A te chiedo una cosa, per seguirmi, a lui un’altra. A te che importa? Non ti confrontare, non pensare di dover fare come lui, o che lui debba fare come te, tu pasci le mie pecorelle. Se voglio che egli rimanga finché io venga. C’è una volontà di Cristo per Pietro, e una volontà di Cristo per Giovanni, Volontà diverse. Destini diversi. Modi di servire la chiesa diversi. E nella chiesa dei primi tempi succede come nella chiesa dei tempi successivi  e come nel mondo, perché siamo nel mondo, che si diffondono voci incontrollate. Interpretazioni non vere. Corrono voci. C’è  un bisogno della gente, il bisogno di darsi una spiegazione, di capire come mai. E il Vangelo dice la frase letterale, ma non la spiega. Nega l’interpretazione che le parole di Gesù significhino che Giovanni “non morirà”, ma non spiega esattamente cosa significhino. Benedetto vangelo! Forse vuole dirci che non dobbiamo cercare ad ogni costo una spiegazione per tutto. Che non siamo tenuti a riceverla, che potremo fino alla fine dei secoli interrogarci, e ci saranno diverse interpretazioni e nessuna potrà vincere sull’altra  perché non toccano l’essenziale della fede. Lo Spirito Santo si diverte a lasciarci aperto il futuro. Ci vuole dire che Gesù svela poche cose sul futuro e basta. Due destini diversi, due modi di versi di andare sulla croce, di subire il martirio. Di testimoniare Cristo. Con la croce di Pietro, con il Vangelo di Giovanni. Con una vita breve e con una vita lunga. Se neanche Pietro che è a capo della chiesa è concesso da Gesù di sindacare sulla fine destinata a Giovanni, potremmo forse noi? E’ bello che nella Chiesa ci sia Pietro e ci sia Giovanni e che siano così diversi, complementari. Nel modo di essere, nel carattere, nell’età  pur essendo entrambi pescatori, entrambi apostoli di Cristo, entrambi sacerdoti della nuova alleanza, vescovi. E Pietro, primo Papa. Anzi, primo Pietro. Affascinante. Cosi anche ciascuno di noi può seguire la sua strada, la sua vocazione, con libertà, senza condizionamenti, senza pregiudizi, senza precedenti, guardando Cristo, ascoltando Cristo, unito alla chiesa, andando a pescare con Pietro e con Giovanni, uniti nella pesca, nella sconfitta di una notte senza frutto. Non presero nulla, e uniti in una mattina di miracolo, di pesci grossi, centocinquantatré, una mattina di colazione con Gesù sulla riva. Uniti, ma poi diversi nel colloquio personale con Cristo. Due colloqui diversi, due destini diversi, due storie diverse e uniti nella fede e nell’amore per Cristo e per la Chiesa. Dopo l’Ascensione del Signore, dopo la Pentecoste, nei primi passi della Chiesa, negli Atti degli Apostoli, li si vede sempre insieme. Il frutto della consapevolezza della propria unicità davanti a Dio, è l’unità tra di loro. Pregano insieme, fanno miracoli insieme, vengono arrestati insieme, processati insieme, incarcerati insieme, flagellati insieme,  inviati insieme in Samaria. Ma poi uno a Efeso e l’altro a Roma. Uno muore negli anni sessanta, l’altro va avanti fino agli anni cento. E dopo aver letto e meditato questo Vangelo ci meraviglieremo ancora che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI abbiano avuto due modi diversi di portare a termine il loro ministero di successori di Pietro? Anche se Giovanni non fu Papa, possiamo applicare l’insegnamento alla diversità dei Papi in tutta la storia della chiesa. Con serenità e con gioia. Benedetto XVI spiegava tre giorni prima del suo annuncio di lasciare il ministero petrino, ai seminaristi romani: E penso che, andando a Roma, san Pietro (…) certamente si è ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni:Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cfr Gv 21,18). E’ una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così, sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio  Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. E la croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico”. Il martirio ha forme molto diverse, dice il Papa. Di Pietro si sa bene la morte in croce, di Giovanni non si conosce con precisione la fine. Fu esiliato a Patmos, dove scrisse l’Apocalisse, Scrisse le lettere per mantenere nella fede e nell’amore i fedeli cristiani, scrive a Eletta, che forse è la chiesa di Roma. Confida nella sua terza lettera “Non ho gioia più grande di questa, sapere che i miei figli camminano nella verità”. Sarà chiamato “il  teologo”. Non fu Papa, ma per alcuni motivi lo possiamo avvicinare a papa Benedetto, soprattutto lo potremo fare dopo il 28 febbraio 2013, ore 20. E visse molto a lungo. Torniamo sulle rive del mare di Tiberiade…Gesù guarda Pietro e Giovanni venire verso di lui, sulla riva, con la barca della chiesa carica di pesci che lui gli ha fatto trovare. Gioisce nel vederli collaborare, sommare le loro diverse attitudini. Li ama così con la loro diversità di compiti, di carattere e di missione, di destino finale della vita terrena. Noi guardiamo Gesù sulla riva. E’ sempre Lui che guida la sua chiesa, il Sommo pastore lo chiama papa Benedetto XVI nelle sue dimissioni,  che ci dice dove gettare la rete, che ci incoraggia nonostante una notte infruttuosa. Pietro si butta in acqua e nuota rapido per cento metri, Giovanni arriva a terra con la barca. Gesù ha preparato per entrambi, e per i loro compagni, una ricca colazione, ha già lui dei pesci, quasi non avrebbe bisogno dei pesci che loro avevano pescato, ma glieli chiede lo stesso: ci chiama a collaborare con Lui per il fine della chiesa. Ma è lui che guida la barca, e la pesca, e anche la frittura di pesce per la colazione, per dare cibo buono a tutti.

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Anche Pio XII aveva pensato di dimettersi dal papato

Alcuni dati della storia recente dei Papi possono servire a inquadrare con prospettiva storica le dimissioni di Benedetto XVI dal suo ministero di Romano Pontefice. Il vaticanista Andrea Tornielli, nel suo libro Pio XII. Eugenio Pacelli, un uomo sul trono di Pietro, Milano 2007, alle pag. 556-557 scrive: “Pio XII ha un’altra preoccupazione. Fino a quel momento, i suoi ritmi di lavoro sono stati elevatissimi, senza mai concedergli un attimo di respiro, se si escludono la bravissima siesta dopo pranzo e l’ormai rituale passeggiata «digestiva» di un’ora nei giardini vaticani, peraltro compiuta con le carte appresso, immerso quasi sempre nella lettura. Ma ora quelle strane crisi dì singhiozzo e la gastrite hanno davvero prostrato il già debole fisico di Pacelli. Che teme di poter rimanere invalido e inabile a proseguire il suo ministero. Comincia dunque a meditare la possibilità di una rinuncia, come del resto faranno i suoi successori Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.”  Tra i successori citati, la riflessione sulla possibilità delle dimissioni  di Giovanni XXXIII é meno conosciuta: Tornielli cita la fonte di questa notizia in una nota: si tratta di una testimonianza inedita di mons. Loris Capovilla, segretario di Giovanni XXIII, riportata nel libro del nipote del Papa,  Marco Roncalli, Giovani XXIII. Una vita nella storia, Milano 2006, a pag. 612, e nei giorni successivi all’annuncio di Benedetto XVI ribadita da mons. Capovilla in alcune interviste. Per quanto riguarda il pensiero sule dimissioni di Pio XII, Tornielli continua: “Lo testimonia un suo fidato collaboratore, padre Guglielmo Hentrich: «Il 14 novembre 1957 il papa manifestò il desiderio di abdicare e ritirarsi tra i Trappisti, se non avesse avuto più le forze per governare. Mi permisi di consigliargli i Certosini, ma egli replicò che preferiva i Trappisti perché conducevano una vita più dura dei Certosini».” Tornielli aggiunge le testimonianze di due nipoti di Pio XII, Marcantonio e Carlo: “«II S. Padre» ha dichiarato Marcantonio Pacelli «si curava perché desiderava restare efficiente. Carlo una volta mi disse che il papa, parlandogli del suo stato di salute, gli avrebbe detto che in caso di sua inabilità avrebbe preso in esame la possibilità di una sua rinuncia.» Anche suor Konrada Grabmair, la cuoca dell’appartamento papale, conferma il pensiero di Pio XII: «Quando si ammalò, nel timore di non poter guarire, pensava di ritirarsi e lasciar liberi i Cardinali di eleggere un successore. Ricordo che diceva: “Son tempi difficili e
la Chiesa non può essere diretta da un papa che non può dare tutto se stesso”». Parole che sembrano richiamate nella dichiarazione di Benedetto XVI dell’11 febbraio 2013: “nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”. Pio XII, spiega Tornielli, “aveva in animo di trascorrere gli anni che gli restavano in cura d’anime. «Vado a  Rorschach – diceva – a fare il cappellano»”. Rorschach, é una località sul lago di Costanza, dove Pacelli si era recato, ai tempi della nunziatura a Monaco di Baviera, per brevi periodi di vacanze di lavoro, nell’istituto Stella Maris delle suore della Santa Croce. “E avrebbe attuato questo suo desiderio se i medici non lo avessero assicurato che si sarebbe riavuto bene e avrebbe potuto lavorare”. Tornielli riferisce anche le parole di  Cesidio Lolli, che  al tempo di Pio XII era redattore e vicedirettore dell’Osservatore Romano:  «L’ho sentito più volte esprimere la speranza di avere una malattia breve al termine dell’esistenza terrena, e di avere un solo giorno di lucidità, pur sempre rimettendosi completamente alla volontà di Dio. Come immaginare – diceva – un papa infermo per lungo tempo? Meglio la rinuncia.» Dunque non solo il diritto canonico e la teologia spiegano che il Papato è un ministero ricevuto che non comporta, di per sé, di essere portato avanti fino alla conclusione della vita, anche la storia della chiesa antica e recente. Anche i papi del secolo ventesimo lo sapevano bene, conoscevano la gravità dell’eventuale decisione, ma non  escludevano dai loro doveri il considerare, se fosse stato necessario, per il bene della Chiesa, la possibilità di lasciare ad un altro quel ministero così importante e gravoso, ricevuto dalla Chiesa, attraverso i cardinali, su ispirazione dello Spirito Santo, in spirito di obbedienza.
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Le forti grida di Gesù, la serenità di Agnese e le lacrime di Emerenziana



Nella messa di sant’Agnese  lo scorso 21 gennaio, avevo appena pronunciato questa preghiera: “Dio onnipotente ed eterno, che scegli le creature miti e deboli per confondere le potenze del mondo, concedi a noi, che celebriamo la nascita al cielo di sant’Agnese vergine e martire, di imitare la sua eroica costanza nella fede” che subito cominciò la prima lettura. E quel giorno capitava il brano della lettera agli Ebrei,  capitolo 5, versetti 1-10, dalla lettura continua. Non era dunque la lettura propria della Messa della santa. Ma andava proprio bene quel testo per la messa di una martire: si leggeva di Gesù davanti al supplizio della sua morte.  Erano parole conosciute, che richiamano i racconti del Getzemani e della passione di Cristo, ma impressionano sempre,  con il loro significato inequivocabile e fortissimo, che noi non avremmo mai osato dire. Ecco cosa ascoltavamo: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”. Leggendo queste parole, pensavo che quello di Gesù è il supremo martirio. Ma mentre i martiri hanno testimoniato con la vita la fede in lui e l’amore per lui, in un gesto di fedeltà estrema, Gesù invece nell’andare verso il suo calvario, testimonia l’amore di Dio Padre per noi, estremo e totale, fino a dare il suo Figlio per salvarci, per perdonarci, per aprirci le porte del cielo. Con la sua morte accettata ci dice   per sempre la sua volontà di salvezza, l’amore per noi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.  Mi colpisce sempre molto la rivelazione che Gesù nei giorni della sua vita terrena ( i giorni fanno pensare a un periodo lungo, non solo la notte nell’orto degli ulivi), prega, supplica, grida e piange!

Mi tornano alla mente alcuni Salmi: se li leggiamo pensando che  sono la rivelazione della preghiera di Gesù, allora i conti tornano.  Leggo dei re e dei principi della terra che cospirano contro il Signore e il suo consacrato (salmo 2) e degli avversari numerosi che insorgono contro di lui (salmo 3), come prega nell’angoscia mentre gli uomini calpestano il suo onore (salmo 4), di nemici insinceri e perfidi (salmo 5); chiede pietà e si lamenta (salmo 6): ma sempre, il Signore lo guida, lo benedice, lo esaudisce. E con parole simili in tanti Salmi: nemici e insidie e dolori, preghiera verso Dio che alla fine libera e salva. Com’è umano il nostro Gesù! Dovremmo guardare di più a lui per cercare di capire qualcosa, del mistero del dolore, che ci accompagna. Ascoltavamo dalla lettura anche queste parole: “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. Come uomo, ha imparato il dolore, lo ha assaggiato, come noi e più di noi. Ha sofferto l’angoscia per ciò che lo aspettava, e per ciò che soffriva. Su queste parole Benedetto XVI parlando ai sacerdoti di Roma insegnava :Questo non è solo un accenno all’ora dell’angoscia sul Monte degli Ulivi, ma è un riassunto di tutta la storia della passione, che abbraccia l’intera vita di Gesù. (18 febbraio 2010). L’intera vita: durante l’intera vita Gesù ha preso su di sé i nostri peccati, ha saputo e sofferto ciò che lo aspettava.

E Dio lo esaudì grazie al suo pieno abbandono? Noi potremmo obbiettare che Dio invece non lo ascoltò perché alla fine fu giustiziato, e non scese dalla croce, il Padre non lo salvò da quella morte terribile. Ma  è stato esaudito radicalmente con la risurrezione: adesso ha una vita nuova dalla quale non può morire più, e che è causa per noi che vi partecipiamo con il battesimo e tutti i sacramenti, di una vita nuova anche in noi, anticipo della nostra risurrezione. Ma con le forti grida e lacrime di Gesù, per contrasto, in quella messa mi tornavano alla mente i racconti del martirio di sant’Agnese e di tanti altri martiri che pur con trepidazione e consapevolezza sono andati incontro  al martirio con una straordinaria serenità. Come mai? E’ vero Gesù dopo aver pianto e sudato sangue nel Getzemani assume un’immensa solennità da sacerdote eterno, e con una sola sua parola “sono io!” fa cadere a terra tutti i soldati. Ma resta la testimonianza dell’angoscia del suo Getzemani e quelle parole della lettera agli Ebrei che risuonavano nella Messa. Penso che i due estremi possano spiegarsi così: le grida e le lacrime di Gesù hanno risparmiato a molti martiri le loro. Gesù ha voluto unirli alla sua passione ma pagando in anticipo, anche per loro, una grande quota di dolore, per rendere loro il cammino più agevole. Ha sofferto innanzitutto per loro. Quindi i martiri lungo i secoli si appoggiano sulla sua passione e Cristo diventa come un Cireneo per loro, porta la croce per loro, e li accompagna con una grazia immensa che confonde i loro carnefici, e spesso li porta alla conversione.  Gesù ha voluto provare fino in fondo ogni angoscia e dolore per risparmiarne una buona parte a noi e ai suoi fratelli e  sorelle che danno la vita per testimoniare la fede in  lui. Circondati e avvolti da una forza sovrumana. Lui invece ha voluto provare il senso di abbandono, lo schiacciamento per i peccati del mondo. Dobbiamo pensare che anche i martiri nascosti, quelli che non possono ricevere il conforto dei fratelli, che muoiono in solitudine, vengono sicuramente raggiunti da questa forza immensa della grazia di Cristo, che risparmia a loro molta parte dell’angoscia che sarebbe naturale provare. I martiri che danno la vita, anche oggi, per testimoniare la fede, l’amore per Dio, l speranza nella vita eterna, l’amore per la sua Madre Santa, per la Chiesa, per l’unità, per i sacramenti, per la castità, per la vita nascente,  sanno che lui ha dato per primo la vita per noi. E su quella forza si appoggiano. Lui ci ha amato per primo, come dice san Giovanni.  Questi pensieri suggeriva la lettera agli Ebrei al celebrante, mentre si sovrapponevano nella sua mente le grida di Gesù con i racconti letti su Agnese, sulla sua serenità e forza. Dice per esempio sant’Ambrogio: “Le fanciulle, sue coetanee, tremano anche allo sguardo severo dei genitori ed escono in pianti e urla per piccole punture, come se avessero ricevuto chissà quali ferite. Agnese invece rimane impavida fra le mani del carnefici, tinte del suo sangue.” Il ricordo di Agnese fanciulla che lo ha amato con il suo cuore di ragazza adolescente, con una dedizione totale, si impone facilmente durante la Messa in suo onore. Sapeva che Gesù a lei si era dato del tutto.  Lo aveva già ricevuto nell’Eucarestia  Aveva contemplato la sua morte in Croce. Aveva una voglia matta di  ricambiare. La persecuzione di Diocleziano imperversava. Sul processo e il modo in cui mori ci sono versioni diverse anche se autorevoli: il Papa Damaso dice che mori con il fuoco e sant’Ambrogio, per decapitazione, entrambi scrivono di lei solo alcuni decenni dopo la morte. E’ sicuro che morì il 21 gennaio. Varie tradizioni parlano della forza con cui difese il suo pudore e la sua verginità. Tutti parlano della sua giovane età. Si capisce perché subito si diffuse il suo culto in tutta la cristianità e molti volevano essere sepolti accanto a lei. Molti di più accanto a lei che non accanto alle tombe egli apostoli. Allora era diffusa la convinzione di una speciale protezione del martire se si veniva sepolti accanto alla sua tomba.  Nel celebrare la sua messa, avendo avuto la fortuna di visitare più volte la sua tomba, mi tornava il ricordo di un particolare che pochi conoscono: accanto a lei, adesso, lì sotto l’altare della basilica a lei dedicata, sul quale una volta ebbi la grazia di celebrare la Messa in suo onore,  fin dal secolo IX, è sepolta anche Emerenziana, anzi sant’Emerenziana  secondo la tradizione era sua sorella di latte. Sua amica del cuore diremmo oggi. Della stessa età. Narra la tradizione che fu vista piangere sulla tomba di Agnese dai persecutori dei cristiani, e lapidata sul posto. Così se Agnese è martire della fede in Cristo, dell’amore totale per lui, della castità semplice, lei l’amica è martire dell’amicizia, che testimoniò con le lacrime. Non seppe trattenersi dall’andarla a visitare sul suo sepolcro, perché  le mancava troppo, e piangerla. Così fu identificata come cristiana e uccisa subito. Per questo quando celebro la festa di sant’Agnese non posso non ricordarmi anche di Emerenziana, la cui memoria cade il 23 gennaio, due giorni dopo, a ricordo del suo martirio così vicino a quello dell’amica. E chiedo a entrambe che ci aiutino a vivere l’amicizia così, fino a dare la vita. Non è forse quello che ci chiedeva Gesù?  “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. Agnese ed Emerenziana lo avevano ascoltato.