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DONNA PERCHÉ’ PIANGI, CHI CERCHI? Gesù dimentica i peccati

Riflettevo sull’incontro di Maria Maddalena con Gesù Risorto nel mio libro IL SACRAMENTO DELLA GIOIA. Prepararsi alla confessione meditando il Vangelo. E mettendolo in collegamento con un altro brano evangelico in cui si parla di lei e del suo primo incontro con Gesù, ho pensato a questa applicazione: Gesù dimentica i peccati.
In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano
state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni. (Lc 8,1-3)
Da Maria di Magdala erano usciti sette demoni, e anche le altre erano state guarite da spiriti cattivi o da malattie. Dopo la guarigione seguono Gesù e gli apostoli e li assistono con i loro beni. Le loro ricchezze, il loro lavoro, la loro presenza, la loro delicatezza sono di grande aiuto a Gesù e agli apostoli. Per seguire Gesù da vicino e servirlo non si richiede un certificato di condotta immacolato o una salute spirituale che non abbia mai subìto prove o malattie. Vi è un primo incontro con lui che provoca una guarigione profonda. Scompaiono malattie e spiriti cattivi.

Subito si può cominciare a seguirlo – dedicargli la vita – servirlo, donargli i beni di cui lui stesso ci ha dotati in previsione del nostro servizio.  Una buona confessione può cambiare la vita. Può essere l’inizio di un’avventura divina. Maria di Magdala fu la prima a vedere Gesù risorto. Ebbe il compito di annunciare ai discepoli la notizia della risurrezione di Gesù. Per questo sarà chiamata. nella tradizione della Chiesa, apostolo degli apostoli. Non avrebbe mai potuto ricevere quella missione, senza quel primo incontro. Così Giovanna e molte altre donne che danno una dimensione femminile a quel primo gruppo di discepoli del Signore. Sono discrete, lavorano sodo e nel silenzio, ma sanno tutto e sono più forti degli uomini. Non si perdono quando c’è la croce. Stanno sulla via del calvario e poi vicino a Gesù a confortarlo con Maria sua Madre. Tutto questo cominciò con la guarigione dagli spiriti cattivi. Il ricordo di quella guarigione era nella loro anima come una fonte inesauribile di gratitudine e di pace.


Le disse Gesù: «Donna, perché piangi?
Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore,
se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le
disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa:
«Maestro!». (Gv 20,15-16)
 Gesù invece non vuole ricordare. Per lui Maria di Magdala non è più colei che aveva il problema dei sette demoni, e come furono difficili da scacciare. No, per lui Maria Maddalena è Maria, creatura nuova. Tra gli uomini e le donne  che sono suoi discepoli, è la prima  a ricevere una sua apparizione  nel mattino di Pasqua, perché è la più affezionata, la più  fedele.
Una tentazione del penitente è pensare che Dio tenga il conto dei peccati, e che il sacerdote suo ministro lo giudichi in base ai peccati, e ne tenga memoria.  E’ a causa del peccato  che gli uomini ricordano il peccato invece del perdono. Già il ricordare il peccato, quando è stato perdonato e riparato, può essere un peccato della memoria.  Dio invece, che non ha peccato, perdona e dimentica. Secondo la profezia di Geremia,  conoscere questa prerogativa di Dio, equivale a conoscere Dio: <<Non dovranno più  istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno…perché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato>> (Ger 31,34) Gesù non pensa più ai sette demoni, Gesù ha in mente Maria, il suo amore, le sue lacrime, il suo servizio, la sua disponibilità, il suo nome nuovo. <<Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve>> (Ap 2,17)
Con il sacramento dell’ordine Gesù fa partecipi i sacerdoti della sua visione  del peccato, e della sua dimenticanza. Anche loro si ricordano solo della creatura nuova rinata nel lavacro della penitenza, si ricordano della sua vittoria, del suo nome nuovo sulla pietruzza bianca, del suo rifiorire nel mattino di Pasqua alla vista del maestro che asciuga le lacrime  perché <<le cose di prima sono passate>> (Ap 21,4). E dimenticano il peccato ascoltato, perché non c’è più.
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MARIA CORREDENTRICE E L’APOSTOLATO CRISTIANO

Omelia di don Matteo Fabbri, Novena all’Immacolata, Duomo di Milano 6 dicembre 2012 S. Messa vigiliare della Solennità di Sant’Ambrogio


Sant’Ambrogio, la cui solennità anticipiamo a questa cerimonia vigiliare, era un grande innamorato della Madonna, di cui ha cantato e proclamato le lodi in molti scritti.
Ad esempio, la raffigura così ai piedi della Croce: “la Madre (…) contemplava con uno sguardo pieno di pietà le piaghe del Figlio, per mezzo del quale essa sapeva che sarebbe venuta la redenzione del mondo. Assisteva al generoso martirio del Figlio, lei che non temeva gli uccisori di lui. Il Figlio pendeva dalla Croce; la Madre si offriva ai persecutori”[1]Colpisce la profonda identificazione della  Madre con il Figlio. È quello che i teologi dei secoli successivi chiameranno il mistero di Maria Corredentrice, ovvero la partecipazione attiva della Madre al Sacrificio redentore del Figlio e a tutta la sua forza salvifica. In questa luce possiamo leggere il passo del Vangelo

che ci è proposto dalla liturgia: la barca dei discepoli, nella quale è facile vedere la anticipazione della Chiesa, è sballottata dalle onde finché non giunge Gesù, camminando sulle acque. È solo quando i discepoli vogliono prenderlo a bordo, che la barca tocca rapidamente la riva e giunge così a destinazione. Questo vale per la Chiesa intera: essa, come Maria, trova la sua forza e la sua efficacia solo in Gesù, solo nella sua effettiva unione con Cristo, suo Sposo. Ma questo vale anche per ciascuno di noi, come stiamo vedendo in questa Novena. L’esempio della Madonna ci sprona verso una vita cristiana più vera, più autentica, e lo abbiamo assaporato; come a Cana, Ella ci dice: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”[2]. Ci esorta ad aprire il nostro cuore per accogliere Gesù, a volerlo prendere a bordo della nostra vita. Possiamo applicare queste considerazioni alla santificazione personale, alla nostra lotta, ma anche alla partecipazione di ciascuno di noi alla corredenzione. È l’apostolato cristiano. Esso può avere efficacia solo se siamo in Cristo, solo come traboccare della vita interiore e della grazia dallo Spirito Santo che ci muove. È uno dei punti che il Papa ci ha voluto far considerare in questo Anno della fede: “Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti: con la loro stessa esistenza nel mondo i cristiani sono infatti chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato (…) Caritas Christi urget nos (2 Cor 5, 14): è l’amore di Cristo che colma i nostri cuori e ci spinge ad evangelizzare. Egli, oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra”[3]Parole chiare e impegnative, che ci richiamano alla enorme ricchezza della nostra vita cristiana, che naturalmente tende a straripare intorno a noi, in cascate di esempio gioioso, di testimonianza vibrante e di consiglio amichevole. Troppo spesso siamo pervasi da una mentalità individualista anche nel modo di vivere la nostra fede: tendiamo a pensare che in fondo anche nel rapporto con Dio valga il detto “si salvi chi può!”, riduciamo la fede ad una opinione personale o a una convinzione da seppellire nel privato[4]. La Madonna ci insegna il contrario: Ella è Madre della Chiesa nascente e si affatica nel curare e mantenere la fede degli Apostoli: pensiamo a quello che sarà stato il suo ruolo nel primo Sabato Santo, giorno in cui Ella era l’unica credente. Con il suo affetto materno ha contribuito a mantenere viva nei discepoli almeno la fiammella del rimpianto, che ha permesso loro di essere ancora insieme la mattina della Pasqua.

No, il dono della fede mi è fatto non perché lo custodisca solo per me; mi è fatto per trasmetterlo. Il discepolo è partecipe della vita di Cristo e, con parole di san Josemaria, “non è possibile separare in Cristo il suo essere Dio-Uomo e la sua funzione di Redentore. Il Verbo si fece carne e venne sulla terra ut omnes homines salvi fiant, per salvare tutti gli uomini. Nonostante le nostre miserie e le nostre limitazioni, ciascuno di noi è un altro Cristo, lo stesso Cristo, anche noi chiamati a servire tutti gli uomini”[5]. La missione apostolica è elemento intrinseco della nostra vita cristiana: siamo tutti responsabili di tutti. L’incontro con Cristo è luce per noi e per gli altri. Con parole del nostro Arcivescovo: “Nella sua luce vediamo la luce che permette di ridire a noi stessi, con semplicità, che cosa è la fede e rinnovare a tutti l’annuncio della verità buona del Vangelo in quell’adempimento  necessario e desiderabile, che chiamiamo nuova evangelizzazione”[6]Ma appena passiamo da una considerazione astratta dell’impegno di tutti nella nuova evangelizzazione alla considerazione concreta della vita di ciascuno di noi, subito ci si pone un problema. Come posso io essere apostolo (inviato del Signore Risorto) se la mia fede è così debole? Io stesso, tante volte, tocco con mano la fatica della coerenza: e come posso allora pretendere di insegnare ad altri? Sulla base di quale autorità o autorevolezza? Sono domande frequenti, che richiedono una risposta articolata.
Cominciamo con il dare la parola al Beato Giovanni Paolo II, che ha usato un’espressione particolarmente felice a proposito: “La fede si rafforza donandola!”[7]. La testimonianza fa parte della crescita stessa della fede. Non occorre attendere di aver raggiunto chissà quali vertici di santità per parlarne e mostrarne la bellezza a chi ci sta intorno, basta aver cominciato ad assaporare il gusto di Dio. E neppure occorre chissà quale investitura solenne da parte della Gerarchia. L’apostolato cristiano è un diritto e un dovere di ogni singolo battezzato in quanto tale, non è esecuzione di un mandato del Vescovo o del parroco; scaturisce dal nostro Battesimo, perché è parte necessaria della nostra VITA cristiana. Già san Tommaso d’Aquino diceva che “Istruire qualcuno per condurlo alla fede è il compito di ogni predicatore e anche di ogni credente”[8].
Certamente la prima e più fondamentale espressione dell’apostolato cristiano è la testimonianza. Questa è costituita dall’esempio della vita e dall’insegnamento della parola. Sottolineo i due elementi: la parole senza esempio muoiono prima ancora di essere pronunciate, e l’esempio senza parola nasconde troppo spesso comodità e rispetto umano. Parola ed esempio, perché questa è la logica profonda e intrinseca della stessa Rivelazione, compiuta in Cristo gestis verbisque, con fatti e parole, secondo la ricca espressione del Concilio Vaticano II[9].
Lo stesso Catechismo insiste sul punto: “Tale apostolato non consiste nella sola testimonianza della vita: il vero apostolo cerca le occasioni per annunziare Cristo con la parola, sia ai credenti… sia agli infedeli”[10]La testimonianza passa quindi attraverso l’esempio della rettitudine della nostra vita. Rettitudine che è ricerca, a volte faticosa, ma sempre sincera. E questo si vede. Si vede lo sforzo per essere pazienti in famiglia, …anche se a volte si perde la pazienza: si saprà recuperare, chiedendo scusa. Si nota l’impegno per compiere bene il proprio lavoro anche nei piccoli particolari, anche se questo è compatibile con errori, visto che nessuno è perfetto. Questo non è ipocrisia. Predica bene e razzola male chi non lotta. Ma chi si impegna, dà un esempio buono e reale, e, soprattutto … accessibile, alla portata di tutti. Ma l’esempio e la testimonianza in esso racchiusa ha anche un altro elemento: la gioia. Non possiamo pretendere di essere apostoli se andiamo in giro con una faccia da funerale. Chi pensiamo di convincere se abbiamo un muso lungo che… quasi ci si inciampa! Ci vuole il sorriso ampio, la gioia e anche un pizzico di buon umore, che dovrebbe essere una caratteristica di noi cristiani. Ricordo il caso di una signora di una certa età (non esistono donne anziane: da un certo momento in poi semplicemente hanno una certa età); questa signora era di età ormai certissima, tanto da essere anche abbastanza sorda. Un bel giorno va in una chiesa dove sapeva che c’era un sacerdote a confessare, raggiunge il confessionale e comincia la sua confessione. Solo dopo un po’ di tempo di rende conto che la sua sordità le aveva giocato davvero un brutto scherzo: il sacerdote… non c’era. Allora, con una buona dose di senso dell’umorismo, esce dal confessionale ridendo di se stessa, pensando “mi sono proprio ridotta male!”. Il giorno seguente, dopo aver fatto le dovute verifiche, ritorna. Questa volte il sacerdote c’è e infatti c’è coda. Mentre aspetta, una ragazza giovane le si avvicina e le dice: “Signora, devo ringraziarla”. La signora, sorpresa, dice che non sa perché e che neppure le sembra di averla mai vista. Ma la giovane continua: “è vero che non ci conosciamo ma devo ringraziarla lo stesso. Vede: io mi sono appena confessata. Era da diversi anni che non lo facevo e avevo molta paura di farlo. Ieri ero in questa chiesa, in fondo, timorosa. E quando l’ho vista uscire così contenta dal confessionale, mi sono decisa a confessarmi anch’io”. Grazie a una risata! È il senso dell’umorismo di Dio, che si serve anche della sordità di quella signora e del suo non prendersi troppo sul serio per toccare il cuore di una giovane. Il punto è che sul nostro volto brilla la gioia di Cristo. E si nota. San Paolo usa questa espressione: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore”[11]E oltre all’esempio e allo splendore della nostra vita, c’è la nostra parola, il nostro invito, sostenuto sempre da abbondante orazione e mortificazione. Preghiamo per amici e colleghi o colleghe: è il primo modo per avvicinarli al calore del Cuore di Cristo. E poi, parlare con amicizia e affetto.
Non si tratta di fare chissà quali discorsi, né tanto meno di pretendere di fornire un insegnamento da saputelli. Tante volte basterà dire, con semplicità: “Ho pregato per te”. E questo darà la stura a confidenze personali.
Non servono prediche fastidiose (e infatti mi avvio alla conclusione!), ma confidenze fatte con il cuore. Raccontiamo ciò che è servito a noi: sono cose belle. Se ci sembra che sia stata utile questa Novena, perché non parlarne agli amici, raccontando qualcosa che ci ha colpito? Un amico che non vedevo da tempo mi chiedeva ormai tanti anni fa come stesse mio padre: bene, risposi, è contento; mi chiese poi di mio fratello che allora era da poco anche lui sacerdote; e io, senza pensarci, dissi: è contento, sai sono i primi mesi di sacerdozio… Mi interruppe e mi chiese: ma come fate ad essere tutti così contenti? Fu l’occasione di cominciare a spiegarglielo.
Parlare della nostra esperienza, certo. Ma parlare di Cristo. È Lui che attira, anche oggi. Stiamo attenti a non parlare troppo di cose, di doveri, di quello che dovresti fare e non fai (a volte è pure necessario). Cerchiamo invece di mostrare in modo vivo la bellezza del volto di Cristo.
Un ultimo racconto: un giovane studente universitario che aveva frequentato una residenza universitaria, scrisse un giorno una lettera a quello che era il direttore della residenza, annunciandogli che sarebbe entrato in seminario. Diceva: “Mi hai insegnato anni fa che l’apostolato è presentare l’amico (minuscola) all’Amico (maiuscola). Grazie di avermelo presentato.”
La Madonna, Regina Apostolorum ci è di esempio anche nell’apostolato  Ed infatti si reca in fretta a visitare la parente Elisabetta, appena ha la notizia della sua gravidanza dall’Angelo  Sant’Ambrogio commenta la scena così: “La grazia dello Spirito Santo non conosce i lunghi indugi”[12]. Chiediamo a Maria Immacolata di saper rompere anche noi gli indugi.
Amen.



[1]De institutione virginis, n. 49.
[2]Gv 2, 5.
[3]Porta Fidei, n. 6 – 7.
[4]Cfr. A. Scola, Alla scoperta del Dio vicino, n. 6.
[5]E’ Gesù che passa, n. 106.
[6]Alla scoperta del Dio vicino, n. 4.
[7]Lett. Enc. Redemptoris Missio (7-XII-1990), n. 2.
[8]Summa Theologiae III, q. 71, a. 4, ad 3.
[9]Cost. Dogm. Dei Verbum sulla divina Rivelazione, n. 2.
[10]CCC, n. 905, con cit. del Decr. Apostolicam actuositatem, n. 6.
[11]2 Cor 3, 18.
[12]Commento al Vangelo di san Luca, II, 19.
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ED ERA NOTTE. Il turbamento di Gesù nell’ultima cena.

Meditazione sul Vangelo del Martedì santo. Giovanni 13,21-33;36-38

In quel tempo (mentre era a mensa coni suoi discepoli) Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse:«Signore, chi è?». Rispose Gesù: «È colui per il quale intingerò il boccone e glielo

darò». E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota.
Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Gli disse dunque Gesù: «Quello che vuoi fare, fallo presto». Nessuno dei commensali capì perché gli avesse detto questo; alcuni infatti pensavano che, poiché Giuda teneva la cassa, Gesù gli avesse detto: «Compra quello che ci occorre per la festa», oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte. Quando fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte.

San Paolo esorta i Filippesi ad avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù quando donò se stesso annullandosi nella morte di croce. Le letture della Messa del martedì santo ci aiutano a entrare in quei sentimenti di Gesù, a provare a vivere con lui la sua passione. Gesù è commosso profondamente dal tradimento di uno dei suoi discepoli, che sta per accadere. Il vangelo del martedì santo comincia con la previsione del tradimento di Giuda e termina con la previsione del rinnegamento di Pietro.  Gesù è preso, turbato e commosso: da un amico che lo tradirà e dal discepolo- roccia su cui ha costruito la Chiesa, che lo rinnegherà. I discepoli si guardano l’un l’altro perché sanno che chiunque di loro lo può tradire. Si conoscono. Sanno di che pasta sono fatti. Non hanno però particolari pregiudizi. Non hanno fatto comunella tra loro per designare il più cattivo,
sono sprovvisti di capro espiatorio, in questo dovremmo imitarli. Discutono su chi può essere il più grande, ma non osano dire chi è il più peccatore. In questo sono onesti e realisti. Hanno uguali possibilità di vincere il premio negativo, la maglia nera. Pietro e Giovanni, il più anziano e il più giovane, che stanno accanto a Gesù si guardano e si capiscono rapidamente. Forse non era piaciuto a Pietro quando Giovanni aveva chiesto, insieme al fratello Giacomo, di sedere nei posti principali del regno di Gesù, ma adesso, nel momento della difficoltà, della crisi, si uniscono. Giovanni si appoggia sul petto di Gesù. Origene scoprirà il collegamento tra questa scena e il prologo del Vangelo di Giovanni: là Giovanni dirà che Dio che nessuno ha mai visto ce lo ha rivelato colui che sta nel seno del Padre. Giovanni, il discepolo amato, che sta nel seno di Gesù, analogamente ci rivelerà il Figlio, come il Figlio ci ha rivelato il Padre. Con il suo apostolato e il suo vangelo. Anche noi tutti siamo chiamati a essere apostoli di Gesù, e troviamo la forza e la chiarezza per farlo, stando reclinati sul suo petto.  La preghiera, l’unione con Dio, l’amore per lui, il chiedere a lui perdono dei peccati, è questo: stare appoggiati al suo petto, ascoltare il cuore di Dio.  Gesù tenta fino all’ultimo di recuperare Giuda. Gli da il boccone. I greci chiamano così, con quella parola, boccone (psomion) la particola eucaristica. Capiamo un po’ del suo turbamento infinito. Benedetto XVI nel suo secondo libro su Gesù di Nazaret spiega che “Gesù in quell’ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, della sofferenze che viene in ogni tempo dall’essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia” (pag. 81). E’ significativo che i discepoli nonostante ciò che ha detto Gesù: uno di voi mi  tradirà, e quello che ha detto a Giovanni: è lui, non si accorgano, non pensino male: pensano che Giuda andrà a comprare cibo o a dare qualcosa ai poveri. Così Gesù permette che accada a volte, o spesso. Che non ci accorgiamo. Siamo così limitati. Non siamo onnipotenti né onniscienti, noi discepoli di Gesù, non siamo i padroni della storia, non siamo più del maestro. Gesù non vuole che lo siamo, che ci crediamo chissà chi. Il Maestro rispetta grandemente la nostra libertà. E i suoi disegni non sono i nostri, e le sue strade non le conosciamo. Non incita i discepoli a uscire, a inseguire Giuda, a convincerlo,  a bloccarlo. Non svela la sua interiorità misteriosa che Lui conosce. E orienta al bene anche quel male, quel tradimento: che diventa l’occasione della sua cattura e della sua passione e croce e morte e risurrezione. Della nostra Redenzione. Ed era notte, dice il vangelo. Nell’omelia tra pochi intimi del suo primo martedì santo da Papa, il Papa Francesco, diceva che tutti noi conosciamo la notte del peccatore. Quanti giorni abbiamo avuto di questa notte! Quanti tempi! Quando la notte giunge ed è tutto buio nel cuore…Poi la speranza si fa largo e ci spinge a un nuovo incontro con Gesù. Di questa notte del peccatore, diceva, non abbiamo paura. La cosa più bella è dire il nome del peccato, confessandolo, e così, fare l’esperienza di san Paolo che affermava che la sua gloria era Cristo crocifisso nei suoi peccati. Perché? Perché lui, nei suoi peccati, ha trovato Cristo Crocifisso che lo perdonava… il Papa ha ripreso “la dolcezza del  perdono” che si chiede nell’orazione colletta della Messa del martedì santo: “Concedi a questa tua famiglia, o Padre, di celebrare con fede i misteri della Passione del tuo Figlio, per gustare la dolcezza del tuo perdono”.…In mezzo alla notte alle tante notti, ai tanti peccati che noi facciamo, perché siamo peccatori, c’è sempre quella carezza del Signore, che fa dire: Questa è la mia gloria. Sono un povero peccatore, ma Tu sei il mio Salvatore!…Pensiamo che bello è essere santi, ma anche che bello è essere perdonati…Abbiamo fiducia in questo incontro con Gesù e nella dolcezza del suo perdono.” La dolcezza del perdono la gusterà Pietro tra poche ore, anche se piangerà amaramente. Povero Gesù: abbandonato da tutti. “Mi lascerete solo”. Dopo aver letto il vangelo capiamo meglio come si applichi a Gesù la prima lettura della Messa dal profeta Isaia. Possiamo intravedere nel dialogo tra il servo e Dio qualcosa del misterioso e sublime dialogo tra il Figlio e il Padre: Dal seno materno mi ha chiamato, ha reso la mia bocca come spada affilata (la missione che il Padre ha dato al Figlio presso di noi). E Dio gli dice : “Mio servo sei tu, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. Ma il servo gli manifesta un senso di inutilità nella sua missione: Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma Dio risponde al suo servo: E’ troppo poco che tu sia mio servo…Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra.(cfr Is. 49,1-6). Con queste parole chiameremo Gesù nella notte della Risurrezione. Lumen Christi! Luce delle nazioni. E’ consolante che il servo abbia avuto la tentazione dell’inutilità. E la risposta del Padre! E insieme con Gesù rispondiamo al Padre con il Salmo: In te, Signore , mi sono rifugiato, mai sarò deluso. Ci servirà tutte le volte che provassimo quello stesso sentimento di inutilità del nostro impegno. Sii tu la mia roccia…mia rupe e mia fortezza tu sei. Sei tu Signore la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza. Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno. La mia bocca racconterà la tua giustizia. I miei eletti non lavoreranno invano. Un ultima considerazione: nel vangelo del martedì santo, la liturgia della Chiesa ci offre il brano di Giovanni 13 senza due versetti: 34 e 35. Sono i versetti del comandamento nuovo dell’amore: Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. Forse perché ci concentrassimo sul dramma della notte, dei tradimenti, dei rinnegamenti. Ma è bello riscoprire che tra il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro, Gesù propone ai suoi il comandamento nuovo. Pieno di speranza nella forza soprannaturale del suo amore in noi. Capace di vincere le tenebre. Cosi, in punta di piedi, cerchiamo di fare nostri alcuni degli insondabili sentimenti di Gesù, e dei suoi desideri verso di noi. Accompagnati da Maria, e guardando a lei diciamo con Gesù al Padre: “dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno(cfr Sal 70(71))


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LA PASSIONE DI GESU’ E IL BUON LADRONE


A proposito della lettura della Passione durante la messa della Domenica delle Palme, e del momento commovente della morte di Gesù che si medita inginocchiandosi in silenzio riporto un ricordo personale che ho pubblicato nel libro HO DESIDERATO ARDENTEMENTE. Incontrare Gesù nell’Eucaristia, Paoline 2005
Domenica delle Palme di qualche anno fa. Un gruppo di ragazze di undici, dodici, tredici anni   riunite per una giornata di formazione. Al Vangelo si legge il racconto della passione del Signore. Il celebrante, avendo di fronte a sé quel pubblico attento ma vivacissimo, si sforzava  di leggere meglio che poteva la passione secondo Matteo, pronunciando con significato le parole.
Guardava ogni tanto le astanti e vedeva i loro occhi attenti, non perdevano una parola. Avevano ritrovato l’immobilità del corpo senza esserselo proposte.
Giunse il grido alto di Gesù e la sua morte sulla croce. Si inginocchiarono tutti e il silenzio era quel silenzio tutto particolare, vibrante, denso da potersi tagliare, emozionante come la preghiera.
Dopo alcuni intensi secondi di preghiera, forse per quel segreto timore di esagerare, di stancare,
 si rialzò piano il sacerdote vestito di rosso.  Quel timore presto diventò stupore. Così, rialzatosi, dall’ambone ammirò lo spettacolo, tutte quelle giovani teste assorte in preghiera, gli occhi chiusi,   il volto tra le mani.
Straordinario potere della liturgia che rende presente Gesù tra noi con il mistero della sua vita e della sua morte e risurrezione.
Passarono altri secondi. Dovette riprendere a leggere il vangelo, allora le fanciulle si rialzarono. Rimase nel celebrante il rammarico d’aver troppo affrettato i tempi, di aver interrotto quel dialogo intensissimo.
Fosse così sempre la nostra Messa. All’alto grido di Gesù corrispondesse sempre l’alto grido, il sussulto invincibile del nostro amore.
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ALLA FINE DEL MONDO.Meditazione sulle prime parole di Papa Francesco.

13 marzo 2013, sera. Sono passati già più di settanta minuti dalla fumata bianca. Il Papa Francesco finalmente appare alla loggia di san Pietro. La maggioranza degli italiani e dei presenti in piazza san Pietro non lo conosce. E’ accolto dall’applauso  della preghiera, dallo stupore. Guarda davanti a sé la folla immensa e multicolore. I flash dei fotografi. Vede la Chiesa di Roma davanti a sé e grazie ad essa, come in un caleidoscopio, la chiesa universale che da un’ora e dieci minuti è chiamato a presiedere nelle carità. Appena si è affacciato ha smesso di piovere, mi ha raccontato una persona che era lì. Così hanno potuto chiudere gli ombrelli e vedere. Dio si fa presente e aiuta anche così. La gente è felice ed emozionata perché habemus Papam! Lo abbiamo avuto presto: solo 24 ore dopo l’inizio del conclave: tutto ciò comunica unità e armonia nella Chiesa! E perché si chiama Francesco. La gente intuisce la novità: in duemila anni nessuno si è chiamato così. Dopo san Francesco d’Assisi nessuno ha osato chiamarsi così, forse per umiltà: non osavano paragonarsi a quel santo così grande e rivoluzionario. Dal VI secolo nessun Papa, eccettuato Giovanni Paolo I, ha osato darsi un nome che nessun altro Papa aveva avuto prima di lui. Ma Giovanni Paolo, si capiva, era la sintesi dei due predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI. Invece questo nome, Francesco, è  veramente nuovo, unico. E i fedeli colgono che c’è lo Spirito di Dio che soffia sul Conclave, sulla Chiesa, su questa sera di Roma e del mondo, che fa nuove tutte le cose. I fedeli hanno solo un po’ di trepidazione, non lo conoscono, tranne gli argentini, non sanno quale sia il carattere, la voce, lo stile, la lingua…
Fratelli e sorelle,
comincia benissimo, ma ancora il respiro è trattenuto, il cuore è in gola.
buonasera!
Quel saluto e quell’augurio è liberatorio, a molti scorrono le lacrime, e non c’è più la pioggia a confonderle, altri ridono di una risata liberatoria e piena di gioia: Buona sera! Ci ha detto buona sera! E’ un Papa che è un papà e un signore. Grande e vicinissimo. Semplice e umano.


Come se fossimo in un soggiorno e solo venti persone. Ha reso il mondo un tinello di casa. E si riscopre il valore di una parola così comune. Di un saluto così abituale e abitudinario: davvero sentiamo che ci augura con il cuore una buona serata! Come se non fosse lui il protagonista della bellezza di questa sera.Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma, sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo… ma siamo qui… Commozione e applauso. Ci insegna senza darsi arie da maestro: voi sapete. In realtà, così chiaro e con così poche parole che quello fosse lo scopo del conclave forse nessuno l’aveva mai detto. E per la prima volta in questa sera parla del vescovo di Roma. Adesso si che lo sappiamo. Ce lo dice come se fosse semplicemente una cosa che andava fatta, perché Roma ha bisogno di un Vescovo. I cardinali sono fratelli nelle sue parole, come noi, a cui ha augurato buona sera. Sembra: proprio così dice, sembra, perché forse è un sogno da cui lui e noi ci sveglieremo tra poco. Sembra (anche questa è una cosa che non è mai successa!) che lo siano andati a prendere, a scovare con un lanternino, per lo meno così sembra, quasi alla fine del mondo! Questa è, come diciamo noi, in senso superlativo proprio: “la fine del mondo!” Chi conosce gli argentini e l’Argentina sa che loro sono consapevoli della loro grande terra, che contiene in sé anche un nuovo confine della terra, un nuovo finis terrae, rispetto a quello del vecchio mondo.

Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo vescovo: Grazie! 
Forse con uno spagnolismo ha detto: l’accoglienza della comunità diocesana di Roma al suo Vescovo. Cioè in italiano: l’accoglienza del suo Vescovo da parte della comunità diocesana: grazie! Sottolinea ancora il suo essere Vescovo di Roma e l’impotanza del suo popolo. Lo ringrazia.
E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito, Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca
E’ chiaro? Benedetto XVI è il nostro vescovo emerito! E’ chiaro chi è il Papa? Il vescovo di Roma! E chiaro, sempre più chiaro, più evidente! Questo Papa è un catechista straordinario. Ripete senza ripetere. Lo stesso concetto da diversi punti di vista. E poi invita alla preghiera. Non è una esortazione alla preghiera. E’ un’introduzione, lo capiamo subito, ma se ci fosse qualche dubbio è subito fugato. La gente applaude a Benedetto, gli vuole bene! Perché il Signore lo benedica (sia quindi sempre più Benedetto) e perché la Madonna lo custodisca: con le mani fa un gesto di protezione totale. L’intenzione di preghiera è esplicita, profonda, semplice.
Padre nostro…Ave Maria…Gloria…
E’ sorprendente, stiamo pregando. Non ci ha chiesto di fare un proposito di pregare per quando torniamo a casa. Non ci ha lasciati da soli con il nostro compito arduo di corrispondere, con la nostra volontà, con la memoria, perché poi ci dimentichiamo, abbiamo le distrazioni…No: ci prende per mano e ci fa pregare. Come un prete che guida la preghiera. Un parroco. Un papà di famiglia cristiana. Inciampa un po’ sull’italiano delle preghiere ed è meglio ancora, perché ci immaginiamo quando faceva pregare gli argentini, nelle sue Chiese, nelle sue strade, in quelle case della fine del mondo. Io sono davanti a una parete bianca di un soggiorno dove stavo facendo una lezione sulla fede a studentesse universitarie, nella loro residenza, e loro proiettano il segnale da internet. Arrivano altre studentesse. Il soggiorno è una piazza san Pietro in piccolo. E la piazza, il mondo è un soggiorno. Tutte rispondono alla preghiera. Quando mai è successo che più di un miliardo di persone hanno pregato insieme così all’unisono  Anche questa è un cosa nuova? Se Gesù ci ascolta quando ci riuniamo in due o tre, cosa farà quando siamo più di un miliardo a pregare insieme? E tra questi c’è anche Benedetto XVI: questo si che non è mai successo, un papa emerito che riceve preghiere e benedizioni dal Papa nuovo, in diretta tv!
E adesso incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo.
Ok. Siamo insieme non c’è dubbio. Andiamo avanti insieme. Vescovo e popolo, popolo e vescovo. Ci ha preso per mano e non ci lascia. Si può parlare di comunione, di partecipazione. Ma qui c’è la realtà, le parole seguiranno.
Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese.
Cita la stessa espressione di Ignazio di Antiochia nella sua lettera ai Romani, ripresa dal Vaticano II nella Lumen Gentium. Per lui la Chiesa di Roma è quella che presiede alla carità. E’ una testimonianza antichissima, primi anni del secondo secolo, pochi decenni dopo la morte di Pietro. E’ nel testo dell’antico padre della chiesa, la chiesa che presiede: lui che ne è il Vescovo, per conseguenza presiede. Lui si nasconde, mette avanti la Chiesa di Roma, quella dove è Pietro. Ha in mente di favorire l’unità con Roma, l’ecumenismo.
Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro.
Ecco come sarà il cammino: fratellanza, amore, fiducia reciproca. Preghiera reciproca. Può essere modello dii qualunque cammino nella Chiesa ma anche nel mondo, nelle famiglie. E infatti subito Papa Francesco allarga l’orizzonte:
Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo e nel quale mi aiuterà il mio Cardinale Vicario, qui presente, sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa tanto bella città!
La collaborazione, la collegialità, la fiducia, non è teorica. E’ subito dimostrata: accanto a lui il suo cardinale vicario che subito viene affiancato in questo cammino. E l’evangelizzazione è un fine immediato, non secondario.
E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me.
Tutti sono sorpresi. Tutti in silenzio. Il silenzio si tocca, si taglia, è denso. E’ silenzio di preghiera. Ci ha fatti pregare con le parole, Padre nostro, Ave Maria…Gloria, adesso ci fa pregare con il cuore e con la mente. E come è facile. Facile come prima. Adeso non possiamo più dire che è sempre difficile pregare. Forse quando il Papa ci prende per mano, quando preghiamo insieme, quando c’è unità nella carità…
Adesso darò la Benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Riceviamo tutti la Benedizione. Anche i non credenti. Rafforzata dalla preghiera di tutti.
Fratelli e sorelle, vi lascio. Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto! Ci vediamo presto: domani voglio andare a pregare la Madonna, perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo!
La semplicità del buonasera iniziale, diventa affettuosità del buonanotte e del buon riposo. Anche : a presto! è un saluto molto familiare e detto fra amici. In poche parole quanta affabilità condensata. Vuole rivederci presto. Ci lasciamo solo per questa notte, per il riposo. E’ stata una buona sera, come ci aveva augurato e sarà una buona notte e un buon riposo. Perché la benedizione del Padre dona serenità ai figli e rende salda la loro casa. Casa protetta dall’affidamento alla Madonna l’indomani. Come un proposito di bene con cui si riposa meglio.


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STUPORE

Papa Francesco eletto da pochi minuti, contempla con stupore la sua Chiesa

Cominciamo a pubblicare testi di don Valentino Guglielmi. Sono tratti da una raccolta pro manuscripto preparata da suoi parrocchiani, dal titolo “Raccontare l’amore”. Pensando agli avvenimenti grandi ed emozionanti che la Chiesa sta vivendo in questi giorni, e che nella visione di Dio anche don Valentino conosce, scegliamo questa scheda sullo stupore. Spesso le sue brevi ed incisive meditazioni erano rivolte a sposi o a fidanzati in preparazione del matrimonio, lo si comprende dalle parole finali. Ma ci aiutano anche a capire qualcosa della Chiesa sposa di Cristo.

Stupore è l’emozione prodotta nel cuore dall’incontro con qualche cosa di inatteso, non previsto e non prevedibile. Contiene una valenza negativa: evidenzia infatti il limite della mia ignoranza, mi fa sapere quanto poco ho conosciuto fino ad ora, e una valenza positiva: mi offre di interrompere la noia del già visto, mi incoraggia ad avanzare e ad aprirmi ad orizzonti nuovi. Lo stupore mi pone davanti ad un bivio: chiudo alla novità e mi giro sull’altro fianco per continuare a dormire oppure mi appassiono, mi alzo e mi metto sulla strada? Incamminarmi vuol dire investire nuove energie, mi propone una conversione senza condizioni, mi fa abbandonare il vecchio abitudinario e mi riaccende la vita.

Dovrei accorgermi che l’emozione è prodotta da qualche cosa che sta fuori di me, che c’è anche se io non la vedo e non la penso.


Per questo l’attenzione deve volgersi all’oggetto  che viene prima dell’emozione e l’ha prodotta. Quello che devo fare su di me è cercare la temperanza, armonia dei sensi e del cuore, devo cercare il distacco: mia è l’emozione non l’oggetto che l’ha prodotta ed infine devo accettare il mio limite, riconoscermi ignorante, condizione per imparare. Se la cosa è nuova devo tenerla come tale e non diluirla nel già noto, ne spegnerei la originalità.

Solo nel matrimonio è dato di portarsi a casa l’oggetto dello stupore e però conviene ricordare che quel oggetto è e rimane un soggetto donato gratuitamente e si deve continuare a considerarlo come tale. Per questo si dice che il dono ricevuto è compito, cosa di cui occuparsi. Le indicazioni per il compito sono contenute nella configurazione della persona amata.
Sarà necessario interpretare con cura la virtù della temperanza – armonizzazione dei sensi e del cuore – anche dopo le nozze. Occorrerà il distacco: non è un oggetto di mio possesso la persona, che mi è donata, cioè data gratuitamente. Non ho sborsato oro per comprarla e per questo non può essere tenuta alla maniera delle cose che si pagano. Infine dovrò imparare a vedere l’unicità della persona amata: è di se stessa e, in quanto tale, costituisce la cosa che mi manca, è quello che io non sono, per questo la cerco.
Conviene che l’attenzione sia incollata all’oggetto  Mi occuperò poco delle emozioni prodotte in me, quel tanto che basta per esigere da me stesso l’eleganza interiore, da signore.
5 marzo 2008
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LA VOCAZIONE DEL CUSTODIRE.


Bellissimo ritratto della vocazione di san Giuseppe, del cristiano, dell’uomo, del Papa. San Giuseppe, 19 marzo 2013. Offro alla lettura l’omelia integrale di Papa Francesco nella Messa della solennità di san Giuseppe, inizio del suo ministero di successore di Pietro, con alcune mie introduzioni e commenti. Notate come all’inizio, dopo l’introduzione e i saluti, ritrae con profondità e ricchezza san Giuseppe.  Con quale sapienza da una parola della scrittura trae cose vecchie e nuove come il padre di famiglia a cui paragona il regno dei  cieli Gesù. Giuseppe è custode perché prende con sé Maria e poi il Bambino. Custode della Chiesa.  Si dedica a Maria con amorevole cura. Si dedica con gioioso impegno all’educazione di Gesù.  Protegge la Chiesa. E’ discreto, umile, silenzioso. Ha una presenza costante  E’ totalmente fedele anche quando non comprende. Accompagna con premura e con amore in ogni momento.E’ accanto nei momenti sereni e in quelli difficili. Nei momenti quotidiani. insegna il mestiere a Gesù.  Ha costante attenzione a Dio, disponibile al suo progetto. Sa ascoltare Dio, per questo è custode. Si lascia guidare dalla sua volontà e per questo è più sensibile alle persone affidate.Legge con realismo gli avvenimenti. Prende le decisioni più sagge. Così si risponde alla vocazione di Dio: disponibilità, prontezza, e il centro è Cristo. E’ difficile sintetizzare il ritratto di Giuseppe che fa papa Francesco perché è fatto di pennellate tutte di colori diversi. Guardate ci sono tutti i colori. Ci viene da pensare che è un po anche il suo ritratto, e che così guiderà la Chiesa.“Cari fratelli e sorelle! Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza.Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico.Abbiamo ascoltato nel Vangelo che ‘Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa’. In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere ‘custos’, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II: ‘San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello’.Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e con amore ogni momento.
È accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo  ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è ‘custode’, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo!””A questo punto dopo aver ritratto con meraviglia di colori l’animo e la vocazione di Giuseppe, la applica, in sintesi alla vita di ciascuno di noi: così dobbiamo vivere anche noi. Nella lapidaria frase c’è l’apertura alla custodia anche del creato. Questa è la nostra vocazione:“Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!”Subito dopo altra apertura vertiginosa: non è vocazione solo cristiana, l’imitare Giuseppe, ma anche umana, per lo meno nella dimensione della custodia del creato e delle creature. La chiama audacemente e con grande bellezza “la vocazione del custodire“:“La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!”Notiamo che questa vocazione ed esortazione è rivolta a tutti: custodi dei beni di Dio.E subito dopo come a confermare la bellezza della vocazione, ci offre il rovescio della medaglia: quando non lo facciamo il cuore inaridisce: lì dobbiamo cercare la causa, abbiamo smesso di custodire.“E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli ‘Erode’ che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna.”In particolare vi è chiamato chi ha ruoli di responsabilità“Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo ‘custodi’ della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo!”E la cura di noi stessi? che posto ha? E’ decisiva, altrimenti non possiamo custodire gli altri.   E come intenderla? Il Papa Francesco la intende come cura del bene che è in noi e combattimento con il male.“Ma per ‘custodire’ dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono!” E come dobbiamo lottare contro il male che serpeggia in noi? Forse limitandoci ad un atteggiamento severo contro noi stessi? No: in positivo,  bontà e tenerezza sono il rimedio, nel rapporto con gli altri e con il creato, e con Dio. Tenerezza che non è debolezza, anzi è fortezza.“Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!.E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro  di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!Questa è anche la vocazione del Papa che deve intendere il proprio potere come servizio. Come quello di Giuseppe. Come Cristo sulla Croce.“Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore  segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, è straniero, nudo, malato, in carcere. Solo chi serve con amore sa custodire!Come si mette insieme questa chiamata del Papa e di ciascuno con gli orizzonti bui dell’umanità? E’ la soluzione: custodire ogni uomo e ogni donna con amore e il creato, è aprire alla speranza.“Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale ‘credette, saldo nella speranza contro ogni speranza’. Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio.Ecco in sintesi la bellissima e altissima chiamata a custodire, del Papa e di ognuno di noi, per portare speranza. Guardate bene: all’inizio dice che la prima custodia è di Gesù con Maria!“Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato!”.Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a voi tutti dico: pregate per me! Amen”.Grazie Papa Francesco di queste parole così dense e chiare, affascinanti e profonde che non se ne può saltare neanche una. Preghiamo per te, e sappiamo che tu, insieme con Benedetto XVI preghi per noi, che si compia questa altissima vocazione cristiana e umana che ci hai oggi spiegato con tanta sapienza.

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Il sogno di Giuseppe e l’angelo: Benedetto XVI, il Conclave, il futuro Papa

Nella festa di san Giuseppe del 1992 il card. Ratzinger pronunciò un’omelia che contiene considerazioni della sua preghiera che possono aiutarci a capire la sua vita successiva: l’accettazione a proseguire il suo compito di prefetto della dottrina della fede nonostante le dimissioni presentate a 75 anni a Giovanni Paolo II e da lui respinte,  il si alla chiamata ad essere Papa il 19 aprile, e le recenti dimissioni. Forse ci può anche aiutare a capire quale spirito dovrà avere il futuro Papa, a pregare san Giuseppe per il conclave che inizia il 12 marzo, durante la novena di preparazione alla festa di san Giuseppe. Ad affidare la Chiesa e il Conclave e il prossimo Papa al patrono della Chiesa universale. In corsivo i miei commenti. Così cominciava l’omelia::  “Di recente ho visto in casa di un amico una rappresentazione di san Giuseppe che mi ha fatto pensare molto. È un rilievo preso da una pala d’altare portoghese di epoca barocca, che rappresenta la notte della fuga in Egitto. Vi è raffigurata una bottega aperta e accanto un Angelo in piedi. Lì dentro, Giuseppe, vestito da pellegrino con alti sandali ai piedi, pronto per un difficile cammino, sembra dormire. Ad un primo sguardo pare strano
che un viandante possa dormire, ma riflettendoci attentamente si può intuire che cosa l’immagine vuole suggerire” Facciamo una prima sosta per  immaginare un’identificazione dell’omileta con san Giuseppe. La bottega é il suo ufficio di prefetto della Congregazione della dottrina della fede e, in profezia inconsapevole, il suo futuro ufficio di Papa, quello della finestra che si apre su piazza san Pietro. Lui sta con gli abiti del pellegrino. In questo abito che card. Ratzinger nota, ritroviamo  un’immagine classica della vita cristiana. L’autore dell’omelia peregrinerà verso luoghi non scelti da lui: essere Papa a 78 anni. Nelle sue ultime parole da Papa a Castelgandolfo così si definirà: non sarò più Papa, sono un pellegrino che compie il suo viaggio verso l’ultima meta. Continuiamo ad ascoltare l’omelia:“Giuseppe, senz’altro  dorme ma allo stesso tempo sta in ascolto della voce dell’Angelo (Mt 2,13ss). Questa scena richiama quella del Cantico dei Cantici dove il poeta dice: io dormo, ma il mio cuore veglia (Cant 5,2). Riposano i sensi esterni ma le profondità dell’anima sono libere. Quella bottega aperta è la figurazione dell’uomo che ode ciò che risuona nella sua intimità, o che gli viene detto dall’alto  l’uomo che ha il cuore sufficientemente disposto a ricevere la parola che il Dio vivente e il suo Angelo gli vogliono comunicare. In quelle profondità l’anima di ciascuno di noi può incontrare Dio che gli parla, facendosi vicino.” È molto bella questa immagine della nostra vita. Possiamo applicarla anche al nostro lavoro, alla nostra bottega, e più ampiamente a tutti gli ambiti quotidiani della nostra vita: li possiamo stare in ascolto di Dio e del suo angelo. “Tuttavia, il più delle volte ci ritroviamo travolti dalle preoccupazioni, dalle inquietudini, dalle aspettative e dai desideri di ogni genere, e così strapieni di immagini e di vincoli prodotti dal vivere quotidiano, che, per quanto stiamo attenti esternamente, si rende indispensabile una intensa vigilanza interiore per poter ascoltare le voci che parlano all’anima  Essa è tanto appesantita dalle molte barriere elevate dentro di sé, che la voce del Dio vicino non può farsi sentire. Con l’avvento dell’età moderna, noi uomini abbiamo dominato sempre di più il mondo, sfruttandone le cose per i nostri desideri; ma i nostri progressi nel dominio sulle cose e la conoscenza di ciò che è realizzabile attraverso di esse, ha ridotto la nostra sensibilità in tale maniera da far diventare il nostro universo unidimensionale. Siamo dominati dalle nostre cose e da tutti gli oggetti costruiti dalle nostre mani diventati strumenti per produrre altri oggetti. In sostanza non vediamo che la nostra immagine e non siamo in grado di ascoltare la voce profonda che dalla Creazione ci parla, anche oggi, della bontà e della bellezza di Dio. Giuseppe dorme, ma è pronto ad ascoltare ciò che sente dentro il suo cuore e dall’alto – perché come dice il Vangelo che abbiamo appena letto –, egli è l’uomo che riunisce in sé l’intimo raccoglimento e la prontezza nell’agire  Dalla bottega aperta della sua vita, ci invita a ritirarci dal chiasso dei sensi per poter recuperare il raccoglimento; a rivolgere lo sguardo all’interno di noi stessi e verso l’alto perché Dio possa toccarci l’anima e comunicarci la sua parola. La Quaresima è tempo adatto per allontanarci dagli affanni e dirigere i nostri passi sui cammini dello spirito.” Giuseppe che dorme e che ascoltala voce dall’alto può essere una immagine potente che ci ricorda  i cardinali riuniti in conclave ad ascoltare la voce dello Spirito, la voce dall’alto, che chiamerà uno di loro dove lui non vuole. “Vediamo Giuseppe pronto ad alzarsi e, come dice il Vangelo, a compiere la volontà di Dio (Mt 1,24; 2,14). Così egli si inserisce nella vita di Maria, nella risposta ch’ella darà al momento decisivo della sua esistenza: ecco la serva del Signore (Lc 1,38). Così san Giuseppe risponde: Ecco il tuo servo, disponi di me. La sua risposta coincide con quella di Isaia quando ricevette la chiamata: eccomi, Signore, manda me (Is 6,8, e 1 Sam 3,8ss). Questa chiamata, da allora in poi, conformerà l’intera sua vita. Ma similmente c’è un altro testo della Scrittura: l’annunzio che Gesù fa a Pietro dicendogli: ti porteranno là dove non vorresti andare (Gv 21,10). ” Questo accenno del card. Ratzinger, letto oggi risuona profetico per la sua vita e anche per la vita del prossimo Papa: Dio gli ha chiesto di essere Papa e poi anche di rinunciare al ministero di Pietro dopo otto anni. Ai seminaristi di Roma tre giorni prima di dare l’annuncio delle sue dimissioni parlava di Pietro e delle parole profetiche di Gesù in questo modo: “Certamente (Pietro, andando a Roma) si è ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: “Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cfr Gv 21,18). E’ una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così, sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio  Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. E la croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico.” Consapevolezza della dimensione di martirio del Papa. Continuiamo ad ascoltare l’omelia del 1992:“Giuseppe fa della sua prontezza una regola di vita: perché è sempre disponibile a lasciarsi guidare, anche se la direzione scelta non è la sua. L’intera sua vita è la storia di questo modo di corrispondere. Iniziò con il messaggio dell’Angelo sul segreto riguardante la maternità divina di Maria, il mistero della venuta del Messia. All’improvviso  l’idea che si era fatta di una vita nascosta, semplice e tranquilla, viene sconvolta quando è scelto per essere partecipe dell’avventura di Dio tra gli uomini. Accadde così anche a Mosè davanti al roveto ardente quando si trovò faccia a faccia con un mistero di cui dovrà essere testimone e compartecipe. Giuseppe scoprirà subito ciò che questo mistero implica: la nascita del Messia non avverrà a Nazaret, anzi dovrà partire per Betlemme, la città di Davide, ma nemmeno là nascerà: perché i suoi non l’hanno accolto (Gv 1,11). S’intravede già l’ora della Croce: il Signore nascerà nei dintorni, in una stalla. Appena dopo un altro annunzio dell’Angelo, ed ecco la fuga in Egitto, dove vivrà “senza casa e senza patria”: come i rifugiati, gli stranieri, gli sradicati che cercano un luogo dove potersi stabilire con la famiglia. Tornerà in patria, dove vi troverà altri pericoli. Più tardi soffrirà per tre giorni la dolorosa esperienza dello smarrimento di Gesù (Lc 2,46); quei tre giorni sono presagio di quelli che intercorreranno tra la Croce e la Resurrezione: giorni nei quali il Signore scompare e fa sentire il vuoto della Sua assenza. E come il Resuscitato non tornerà a vivere con i suoi con la familiarità dei giorni trascorsi insieme, e dirà: non posso trattenermi perché devo salire al Padre e potrai stare con me quando anche tu salirai (cfr. Gv 20,17), così ora quando Gesù è ritrovato nel Tempio, riappare in primo piano il suo mistero di lontananza, di gravità e di grandezza. Giuseppe si sente, in un certo senso, richiamare al suo posto da Gesù, però allo stesso tempo portato in alto. Io debbo occuparmi delle cose del Padre mio (Lc 2,19); è come se gli dicesse: tu non sei mio padre, ma custode, che per l’elargita fiducia sei stato incaricato di custodire il mistero dell’Incarnazione.” Anche in questo passaggio scopriamo le radici profonde della contemplazione che ha permesso a Benedetto XVI di considerarsi servitore di un disegno di Dio. Visione che potrà aiutare il nuovo eletto a dire di si alla chiamata. “E infine, Giuseppe morirà senza aver visto la realizzazione della missione di Gesù. Nel suo silenzio resteranno sepolte le sue sofferenze e speranze. La vita di questo uomo non è stata quella di chi, pretendendo di realizzarsi cerca soltanto in sé i mezzi necessari per fare della sua vita ciò che desidera. È stato l’uomo che ha detto no a se stesso, che si è lasciato condurre dove non avrebbe voluto andare. Non ha fatto della sua vita una cosa per sé, ma qualcosa da donare. Non ha seguito un piano concepito dalla sua mente e deciso dalla sua volontà ma, accettando i disegni di Dio, ha rinunciato alla sua volontà per essere parte di quella dell’Altro, della volontà grandiosa dell’Altissimo. Però è proprio in questa totale rinuncia di se stesso che egli si scopre. Perché la verità è questa: solo se sappiamo perdere noi stessi, se ci diamo, potremo ritrovarci. Quando ciò accade, non è la nostra volontà a prevalere ma quella del Padre a cui Gesù si è sottomesso: non sia fatta la mia, ma la tua volontà (Lc 22,42). E come allora si compie ciò che diciamo nel Padre Nostro: si faccia la tua Volontàcome in Cielo così in terra: è una parte di Cielo ciò che sta in terra, perché in essa si compie ciò che sta in Cielo. Perciò san Giuseppe ci ha insegnato con la sua rinuncia e il suo abbandono, anticipando l’imitazione di Gesù crocifisso, i cammini della fedeltà, della resurrezione e della vita.” Risuonano in queste parole quelle dell’ultima udienza, la sua volontà di continuar ad essere totalmente dedito al ministero ma in modo diverso” Guardando Giuseppe, vestito da pellegrino, comprendiamo che a partire dal momento del Mistero, la sua esistenza sarà quella di chi è sempre in viaggio, in un costante peregrinare. La sua fu una vita marcata con il segno di Abramo: perché la storia di Dio tra gli uomini, che è la storia dei suoi eletti, comincia con l’ordine che ricevette il padre della stirpe: vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, per diventare uno straniero (Gen 12,1; Eb 9,8ss). Oltre ad essere una replica della vita di Abramo, quella di Giuseppe diventa prefigurazione della vita del cristiano. Con straordinaria vivacità ritroviamo questo concetto nella prima lettera di san Pietro e in quella di san Paolo agli Ebrei. Noi cristiani – ci dicono gli Apostoli – dobbiamo considerarci stranieri, pellegrini e ospiti sulla terra (1 Pt 1,17; Eb 13,14): perché la nostra casa, o come dice san Paolo nella lettera ai Filippesi, la nostra cittadinanza sta nei Cieli (Fil 3,20).” Benedetto XVI lo ha ripetuto ai seminaristi di Roma tre giorni prima di pronunciare la sua rinuncia: siamo pellegrini e stranieri.” Oggi queste parole sul Cielo non vogliamo ascoltarle, perché crediamo che, allontanandoci dai nostri doveri terreni, ci estraniamo dal mondo. Crediamo che la nostra vocazione è solo fare della terra un Paradiso, ma in realtà comportandoci così distruggiamo la Creazione, perché, in fondo, l’uomo anela all’infinito  ed oggi, più che mai, solo Dio può appagarlo completamente. Siamo fatti in modo che le cose finite ci lasciano sempre insoddisfatti perché abbiamo bisogno di molto di più: abbiamo bisogno dell’Amore inesauribile, della Verità e della Bellezza infinite. Sebbene questo anelito sia insopprimibile, noi possiamo eliminarlo dai nostri orizzonti e cercare l’infinito dove non è possibile trovarlo. Desiderando il Cielo già sulla terra, ci aspettiamo ed esigiamo tutto da essa e dalla società attuale. Ma nell’esigere l’infinito dal finito l’uomo calpesta la terra e rende impossibile una ordinata convivenza sociale con gli altri, vedendoli come minaccia od ostacolo. Solo quando rivolgeremo nuovamente lo sguardo al cielo, la terra brillerà ancora in tutto il suo splendore. Solo quando daremo vita alle grandi aspettative dei cuori con l’idea di un eterno stare in Dio, e ci sentiamo nuovamente pellegrini verso l’Eternità invece di essere attaccati a questa terra, allora irradieremo i nostri aneliti a questo mondo perché abbia ancora la speranza e la pace.
Per tutto ciò ringraziamo Dio nel giorno della festa di questo Santo che ci parla di raccoglimento, che ci insegna la prontezza, l’obbedienza e l’atteggiamento dei viandanti che si lasciano guidare da Dio; e che ci indica il modo di servire su questa terra. Imploriamo la grazia affinché, facendoci conoscere la vigilanza e la prontezza, possiamo essere un giorno ricevuti da Dio: vera meta dei viandanti”. Che san Giuseppe, amico della libertà di Dio, come lo definiva san Josemaría protegga e aiuti la Chiesa, Benedetto XVI, il Conclave e il futuro Papa.

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GLI SI GETTÒ AL COLLO E LO BACIÒ.Il Padre perdona i due figli e fa festa con loro


Meditazione sulla parabola del figliol prodigo. Dal libro di Andrea Mardegan  IL SACRAMENTO DELLA GIOIA. PREPARARSI ALLA CONFESSIONE MEDITANDO IL VANGELO (2011) 


Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla (Lc 15,11-16).
La storia del peccato comincia così, col rivendicare l’autonomia da Dio Padre, non più come figli preoccupati dell’eredità familiare (la Chiesa, il regno dei cieli), ma come dipendenti ansiosi di liquidazione. La vita che ci è stata donata diventa superbia della vita: vivo, dunque ho diritto alla mia parte di patrimonio. Ma con questo atteggiamento non si riesce a perseverare a lungo nell’amicizia con Dio, si sta a disagio nella sua casa: dopo non molti giorni ce ne andiamo via, non senza aver prima raccolto le poche cose a cui siamo attaccati. E le poche cose finiscono presto.
Allora si cerca aiuto. Ma non dal Padre: c’è ancora la voglia di autonomia, l’orgoglio di fare di testa propria. Cerchiamo aiuto dal primo venuto. Che invece di aiutarci ci sfrutta: ci fa pascolare i porci senza stipendio. <<Puoi mangiare tutto quello che vuoi, come nel giardino dell’Eden, ma devi prenderlo con le tue mani>>. Lavorava e non mangiava; chiedeva carrube, e invece le buttavano ai porci. <<Vattele a prendere, buttati nel fango. Non pensare di essere diverso da loro!>>. Ma i porci mordono e lui ha paura. Loro ingrassavano e lui dimagriva. Si sta male in compagnia del peccato, si è soli!

Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre (Lc 15,17-20a).

 I maltrattamenti e gli stenti gli ricordano la casa del Padre. Non ha il coraggio di rivedersi lì come figlio, non pensa che sia possibile. Il confronto è con i salariati. Quelli sì che hanno il salario, e in aggiunta pane in abbondanza, senza controlli fiscali, segno di magnanimità del padrone di casa. Vitto, alloggio e stipendio. <<Mi alzerò>>. Occorre alzarsi, reagire, smuoversi dal proprio cantuccio, dal luogo del peccato, che ne è pure l’occasione. Così funziona la conversione del cuore sotto l’azione dello Spirito santo. Gli dirò: Padre ho peccato verso il Cielo e davanti a te. Il peccato è sempre in primo luogo nei confronti di Dio, e ha conseguenza di frattura nel rapporto con gli uomini. Non sono più degno del nome di figlio; perché non sono più figlio. Trattami come uno dei tuoi operai. Si alzò e tornò da suo padre. Occorre partire, mettere in pratica il proposito, non pensarci più a lungo. Approfittare della fame, del freddo, del disagio; coltivare nella mente il ricordo della casa del Padre con le sue luci, il suo calore,  i suoi cibi e le sue feste. E incamminarsi verso casa.
 Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa (Lc 15,20b-24).
 Ancora sei lontano e il Padre già ti vede e ti aiuta. Ti corre incontro. Tu cammini stanco perché sei sfinito e titubante; lui invece corre, ti si getta al collo e ti bacia. Da giorni stai pensando a quella frase, la reciti e la ripeti mentalmente – Padre, non sono più degno di essere figlio, trattami come un servo… – ma tuo Padre non ti lascia finire. Non riesci a dirlo perché tuo Padre ha già chiamato i garzoni per rivestirti a festa, come il più amato dei figli. I servi, con i loro gesti, ti dicono che sei il più amato dei figli. Il vestito più bello, l’anello al dito, i calzari ai piedi. Il Signore Gesù fa sfoggio di parole umane e di immagini e di cose della vita per spiegarci la festa del ritorno a casa, la festa del perdono. A ben vedere, non c’è neanche perdono in senso stretto, non c’è la parola o il gesto, sarebbe troppo poco; c’è la sovrabbondanza commossa dell’amore ritrovato. C’è nel piccolo figlio il pentimento e il ritorno; nel Padre c’è la gioia del figlio ritrovato. Il peccato non è nominato se non nel pentimento del figlio, il Padre non ne fa menzione, il peggio è passato, e il passato è dimenticato. Prevale la festa. Se il Padre dimentica anche il figlio deve dimenticare. Un ricordo non deve turbare la festa: metterebbe ombra. E il vitello deve essere grasso. Tutto quel grasso che cola esprime a modo suo l’amore sovrabbondante – infinito, ineffabile – del Padre, per il figlio ritrovato.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso (Lc 15,25-31).
Anche quella del figlio maggiore è una storia di peccato e di conversione. Anch’essa comincia da lontano, da un lavoro nei campi con il cuore preso da se stesso e lontano dal padre e dalle sorti della propria casa. Con rancore verso quel fratello che lo ha lasciato solo a faticare nei campi. Doppio lavoro. Inoltre coltiva da tempo, dentro di sé, la convinzione di essere stato messo da parte, di non contare nulla, di non poter decidere qualcosa di importante per l’azienda del padre. Tornando a casa subito si insospettisce, non gli va l’aria di festa, perché lui lavora senza festa nel cuore. Per di più è una festa decisa senza il suo consenso, alle sue spalle. Chiama un servo, perché non ha facilità a parlare con il padre. La comunicazione vera è da tempo interrotta perché interiormente lo critica: sempre là ad attendere che torni quel figlio dissoluto, e io chi sono? Il padre, che non fa preferenze tra i figli, si rende subito conto che non è a cena e già è passata l’ora del suo abituale ritorno. Esce per scrutare l’orizzonte, e lo scorge impietrito nella sua ribellione testarda. Corre incontro anche a lui. Lo prega di entrare. Lo aiuta a sputare il rospo: <<Non mi hai dato mai un capretto>>. Ecco, il dialogo è ricominciato.  Non è ancora giunta la conversione del cuore, le parole del figlio maggiore a suo padre sono dure, di accusa. Ma finalmente le ha dette! Si è aperto, ha rotto la solitudine, ha esposto il suo problema e dà così la possibilità a suo padre di medicare la ferita del suo peccato con la misericordia.

Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,31-32).
Come sono belle le parole con cui il Padre dona il suo perdono al figlio maggiore, nel bel mezzo del suo podere! Desideriamo di sentirle risuonare nel cuore quando andiamo a riconciliarci con Dio, con problematiche simili nell’anima. Proteste, lamenti, rancori, invidie forse non del tutto superate. Andiamo alla confessione per ottenere la grazia di Dio decisiva per strapparle definitivamente dal cuore. In quel momento ascoltiamo anche noi quelle parole.
<<Figlio>>. Sentiamo in questa parola tutto l’amore di un Padre che non ha i limiti che hanno i padri terreni, anche quelli molto buoni. Cadiamo spesso nell’errore di attribuire a Dio Padre reazioni umane difettose, come se si legasse al dito i nostri sgarbi. Ma questo capita agli uomini, non a Dio.  Dio è Padre nel significato pieno, assoluto, divino del termine. Non condiziona il suo amore alla nostra bravura, alla nostra corrispondenza, come capita spesso ai padri e alle madri della terra. Ci ama perché siamo opera sua, perchè ci ha fatto suoi figli; ci ama per come siamo, per quello che siamo. Stravede per noi. Anche quando abbiamo calato sul volto la maschera del rancore. Sorride, accarezza: Figlio. In quella parola c’è tutto.
<<Tu sei sempre con me>>. L’amore di Padre che lo porta a stravedere per il figlio, lo spinge quasi a non essere oggettivo, a non vedere, a dimenticare, a trasfigurare le nostre mancanze. Perché non è vero che quel figlio stia sempre con il Padre. Guardando l’episodio dalla parte nostra, non possiamo che constatare che ci eravamo allontanati, che non siamo stati sempre con lui. Da parte sua invece è del tutto vero: il Padre non ci abbandona mai, sta sempre con noi, è sempre dalla nostra parte, fa il tifo per noi. Dà valore anche soltanto allo stare fisicamente nella stessa casa, lavorare lo stesso podere, gli stessi campi. Ci viene a cercare quando è l’imbrunire e non siamo ancora tornati per la cena, e, spinto dal suo cuore di Padre si contraddice. Ci viene a cercare perché non siamo più con lui, ma nella sua formula di perdono incondizionato ci dice il contrario: Figlio, tu sei sempre con me. Mentre lo dice lo realizza, ci unisce a lui. Queste parole valgono tanto quanto l’abbraccio pieno di baci al figlio più piccolo e indisciplinato. O forse ancor di più? Non si può fare un confronto, perché il Padre manifesta l’affetto infinito in modo diverso perché diversi sono i suoi figli e le loro esigenze. Quello più giovane, affaticato dalla lunga esperienza di lontananza, solo, affamato… che era andato in cerca delle carezze delle prostitute, ha bisogno dei baci del Padre e della festa. Al figlio più grande, un po’ schivo, che non ha mai apprezzato le moine, bisogna rivolgersi con  parole che gli dicano molto di più delle carezze. Ha bisogno di un discorso che dissipi in profondità i suoi dubbi, che lo conforti sulla fiducia che il Padre ha in lui, che è il suo vero problema.
<<E tutto ciò che è mio è tuo>>. Il Padre, che è il Dio del cielo, sta dicendo a ciascuno di noi che nel nostro fare le bizze ci siamo dimenticati che siamo figli di Dio. Tutto ciò che è di Dio è tuo, figlio mio, figlio di Dio. Detto proprio nel momento nel quale un padre della terra avrebbe la tentazione di rimproverare, di discutere o di reagire con orgoglio di fronte a una critica ingiusta. Sentiti figlio perché lo sei: qualunque capretto è alla tua portata, è tuo: prendilo pure e fa festa con i tuoi amici. I tuoi amici sono miei amici, portali nella mia casa a fare festa con te. Saranno come figli per me. Torna nella mia casa che è la tua casa, vieni a fare festa. Riscopri tuo fratello come fratello. Tutto è tuo, figlio: la terra e il firmamento, il mondo e l’eternità, ogni creatura, l’umanità di ogni tempo, la grazia, i doni, Gesù di Nazaret e lo Spirito santo, tutto è tuo.   Gesù, parlando con il Padre a proposito dei discepoli che gli ha  affidato, dirà: <<Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie>> : le stesse parole. Il figlio maggiore rimane a bocca aperta. Si scioglie il suo cuore e torna la pace interiore. Non pesa più il lavoro, torna la voglia di danzare.
Il Padre vuole dirci: non soltanto i capretti per le tue feste, ma soprattutto questo figlio mio perduto e ritrovato, e tutti i tuoi fratelli e tutti i miei discepoli, fanno parte di ciò che è mio ed è allo stesso titolo totalmente tuo. Per questo puoi fare festa insieme con  me con la mia stessa gioia. Vuole dirci: Sii per me un altro figlio Gesù. La parabola finisce qui. Non c’è spazio che per lo stupore e per il silenzio di meditazione. Cala il sipario su questa grande comunicazione dell’amore di Dio.

 

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MARIA ALL’INIZIO DELLA FEDE. LA VOCAZIONE E LA SPERANZA

Omelie di don Matteo Fabbri per la Novena dell’Immacolata. Duomo di Milano 29 novembre-7 dicembre 2012. 2°giorno: 30 novembre, Festa di sant’Andrea Apostolo.
Sia lodato Gesù Cristo!
         “Mentre camminava lungo il mare di Galilea, il Signore vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea sua fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini[1].
Troviamo una perfetta corrispondenza tra quanto ieri, nel cominciare questa nostra Novena, abbiamo detto sulla fede, e queste parole, imperiose, sorprendenti, di Gesù. La fede, anche quella della Madonna, è sempre incontro personale con Cristo, e, insieme, cammino che dura la vita intera. La fede è risposta. Risposta a Dio che ci viene incontro, risposta all’appello di Gesù che bussa al cuore di ciascuno di noi.
Come Pietro e Andrea, e dopo di loro milioni di nostri fratelli e sorelle nella fede, anche per me e per te, la vita è semplicemente questo: corrispondenza alla vocazione personale. La nostra vita intera è vocazione. Con parole del nostro Arcivescovo, “All’inizio c’è la scelta che Egli fa della nostra persona, la chiamata del Signore. Per questo possiamo affermare che tutta la vita (la sua chiamata) nel suo svolgersi è in se stessa vocazione: ogni circostanza, ogni rapporto diventa l’invito che, qui ed ora, il Signore ci fa a coinvolgerci con Lui (la nostra risposta)”[2].
All’inizio c’è la luce di Dio, che sorprende.
È del tutto privo di logica che Gesù si rivolga a dei pescatori e non cerchi i suoi seguaci tra persone più dotte o di più elevato livello sociale, o… con più virtù.
Eppure essi “subito, lasciate le reti, lo seguirono”. Sant’Andrea, come gli altri apostoli, non indugia, non si ferma a calcolare o a riflettere su che cosa potrà ancora fare o meno, quali saranno ancora gli spazi per la sua libertà e la sua autonomia. Egli semplicemente si alza e lo segue; si fa conquistare da un amore che gli ha toccato il cuore.
Ancora il nostro Cardinale nell’omelia dell’Immacolata dell’anno scorso aggiungeva: “La libertà dell’uomo non è anzitutto iniziativa, ma risposta. La sua forma compiuta è quella dell’accoglienza spalancata al dono che la precede e le viene offerto. Ciascuno di noi non può forse identificare il sapore della vera libertà nell’esperienza dell’essere amato? Quando si è autenticamente amati il nostro essere si dilata e si muove più liberamente.”[3]
Molto spesso noi, giovani e meno giovani e anche noi educatori o sacerdoti, di fronte alla possibilità della chiamata divina, tendiamo a ritrarci, a discernere, valutare, dirimere, temporeggiare.
Desideriamo trovare certezze e sicurezze, scegliere con cognizione di causa, se non addirittura ricevere un segno straordinario. Ma la vita dei santi ci fornisce indicazioni diverse, a volte addirittura sorprendenti. Che cosa c’è di straordinario nel “Tolle, lege” che portò sant’Agostino a compiere l’ultimo passo verso una conversione faticosamente cercata? O ancora: non ci sembra strano e per nulla soprannaturale la elezione per acclamazione popolare di Ambrogio a Vescovo di Milano quando ancora non era che catecumeno? Si sarebbe dovuto aspettare che almeno ricevesse il battesimo!
Nella sua meravigliosa e indimenticabile visita pastorale a Milano nel giugno scorso, a san Siro, rivolto ai cresimandi e cresimati, il Papa ha detto a chiare lettere “ogni età è buona per seguire Cristo”. Ricordo, a proposito di età e di strumenti umani che una persona qualche mese fa mi raccontava che da bambino, in un paesino dell’entroterra ligure, senza volerlo, bruciò il tetto della scuola. Si era trattato evidentemente delle conseguenze non volute di una sua imperizia nel manovrare una stufa a legna; fatto si è che da lì si era scatenato l’incendio, grazie a Dio in orari in cui la scuola era vuota. Il ragazzino andò a confessarsi e, a distanza di anni ricorda ancora con vivezza quella confessione, di cui aveva una grande paura: rimase colpito di come il sacerdote (anziano e malato) lo trattò con misericordia. Adempiuta la penitenza impostagli, il bambino non lasciava la chiesa, tanto che il buon sacerdote gli si avvicinò chiedendogli perché fosse ancora lì. E il bambino gli rispose che, colpito dal suo esempio, voleva farsi sacerdote. Aveva allora meno di dieci anni, e quindi anche il seminario minore era prematuro: “lo dirai al mio successore”, concluse il buon prete. Un paio di anni dopo arrivò il nuovo parroco: la sostituzione era ormai necessaria a motivo del fatto che la salute del predecessore si era notevolmente aggravata. Il parroco uscente, dal suo letto, chiamò il nuovo e gli disse: vai da quel ragazzino, e fatti raccontare quello che sa che ti deve dire. Il nuovo parroco convocò il bambino e gli chiese di che si trattava: Il bambino disse che voleva farsi sacerdote, ed entrò in seminario. Ora è un Cardinale della Chiesa.
Quel santo sacerdote malato e anziano non si era dimenticato del bambino; non aveva pensato che la manifestazione di quel desiderio fosse un mero slancio sull’emozione del momento. Si dice, a volte: se davvero è una chiamata divina, risuonerà nuovamente nel cuore. Tutto ciò è ovviamente vero, ed è necessario il giusto discernimento (che è sempre ecclesiale), ma chiediamo a Nostra Madre la grazia di saper rigettare ogni forma di pusillanimità.
Sembra quasi che al giorno d’oggi Dio sia l’unico che può aspettare: tanto è eterno! Il resto no.
Tutto oggi è pervaso dalla fretta, dalla immediatezza: a una mail si risponde subito; se suona il cellulare ci precipitiamo compulsivamente a rispondere, in qualunque circostanza ci troviamo… Come rispondiamo a Nostro Signore? Quanto lo facciamo attendere?
Ma come matura la vocazione? Nel dialogo con Dio, certamente. È nella preghiera che si forgia il nostro futuro, la nostra vita. Permettiamo al Signore di allargare i nostri orizzonti e abbandoniamoci con semplicità nelle mani di chi può guidarci.
A chiare lettere il Concilio Vaticano II ha proclamato che tutti sono chiamati alla santità. Per tutti quindi il punto di riferimento dell’atteggiamento giusto di fronte alla chiamata di Dio è quello di Maria Santissima.
Questo non significa che per percepire la chiamata di Dio e per corrispondervi si debba essere perfetti, senza difetti.
Sotto sotto pensiamo che la vocazione sia cosa da privilegiati. Io, che sono così meschino? Io, che mi sento così tanto indietro? Ma la vocazione è cammino, e lungo questa strada il Signore ci assiste e ci conforta con il suo soccorso. Ciò che Dio comanda lo rende possibile con la sua grazia, afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica a proposito della vita morale. Possiamo applicare questa frase alla vocazione personale: è Dio stesso che ci prepara il cammino e ci sostiene lungo la strada.
Certo, rispondere di sì a Dio significa sempre, almeno in qualche misura, perdere il controllo: che cosa succederà, poi? Quo vadis, Domine? (dove vai, Signore[4]? Dove mi porterai?). Chiediamo alla Madonna la grazia di comprendere che la vocazione è sempre un “seguitemi!”, “seguite Me!”. I particolari della vocazione si chiariranno nell’ambito del discernimento, strada facendo, con la guida della direzione spirituale: è giusto in questo non pretendere di avere tutto chiaro in anticipo, anche perché parte costitutiva della comprensione della vocazione di ciascuno, è la disponibilità di fede e di abbandono nei confronti di Dio.
E allora se sei giovane e, nel tuo dialogo con Gesù, cominci a percepire che ti chiede di più, che ti si presenta come l’Amore della tua vita… impara dalla Madonna, cerca di maturare nel tuo dialogo con Gesù la vera disponibilità, quella che Ella ha espresso con le parole “ecce ancilla”: Signore, per Te e con Te sono pronto a tutto quanto mi chiedi, fiat mihi secundum verbum tuum.
Comincerà allora il discernimento, che porterà a compimento, darà “forma” alla disponibilità di amore: la strada è rivolgersi a un sacerdote di cui hai fiducia, aprigli il cuore con sincerità.
E se per te invece sono già passati diversi anni della vita e hai raggiunto “una certa età” senza che ancora ti sia posto il problema della volontà di Dio su di te, pensa che la chiamata è rivolta a tutti; per tutti il Signore ha un disegno di amore. Anche per chi è già sposato da anni ed è padre o madre di famiglia, la vita è vocazione. Forse anche tu puoi ascoltare la voce di Dio che chiede di più, che chiama ad una pienezza di dedizione.
Così con il tempo e i passi che saranno necessari, sia per i giovani che per i meno giovani, la vita si ricomporrà come un puzzle, i pezzi che fino a quel momento sembravano non adattarsi si uniranno, e apparirà un disegno meraviglioso, quello che Dio ha pensato per te fin dall’eternità. Dirai, con la bocca aperta: “Era questo, Signore! Grazie! Che bello!”.
Per tutti il Signore ha delle sorprese in serbo. Per alcuni, lo ripetiamo,  sarà il sacerdozio, o una donazione di celibato apostolico in mezzo al mondo, o la vita consacrata; per molti sarà il matrimonio, che pure è vocazione…
Chiediamo alla Vergine Santissima di aiutarci a scoprire che la nostra libertà è la capacità meravigliosa di rispondere con amore all’amore sorprendente di Dio. E di rispondere con tutta la generosità del nostro cuore. Le chiediamo di vedere la strada che il Signore ha preparato per noi, ma anche di aiutarci a percorrerla.
Oggi c’è un ostacolo fondamentale, specialmente tra i giovani: la paura del futuro. Quante incertezze, camuffate sotto l’apparenza di false sicurezze. Mille uccelli del malaugurio gracchiano intorno a noi, con il loro verso stridulo: “stai attento!”. Manca speranza. Ci si vuole muovere solo con la sicurezza di non sbagliare, con la certezza che non ci saranno difficoltà. E così la vita si spegne, si appiattisce. Questa è la vera vecchiaia del mondo: “Un uomo è vecchio quando in lui i rimpianti superano i sogni” diceva un famoso scienziato. Sembra che non sappiamo più sognare. Se guardiamo il futuro ci giriamo spaventati dall’altra parte.
In questo modo, inconsapevolmente, ci facciamo prendere da un atteggiamento puramente umano, proprio quello che san Paolo stigmatizza nella seconda lettura: “È forse il consenso degli uomini che cerco, oppure quello di Dio? (…) Se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo!”[5]
Le parole fiere dell’Apostolo delle genti valgono anche per noi. Nel cammino della vita come vocazione è il Signore a starci davanti e ad aprirci strada.
La Madonna ci accompagna lungo il cammino, con il suo sguardo incoraggiante e materno. Anche Lei ha sofferto, ha vissuto il momento dell’ abbandono della Croce, quel momento terribile nel quale una spada le ha trapassato l’anima. Scrive Benedetto XVI riferendosi a quel momento e rivolgendosi direttamente all’Immacolata: “Era morta la speranza? Il mondo era rimasto definitivamente senza luce, la vita senza meta? In quell’ora, probabilmente, nel tuo intimo avrai ascoltato nuovamente la parola dell’angelo, con cui aveva risposto al tuo timore nel momento dell’annunciazione: non temere, Maria!” Facciamo nostre queste parole del Pontefice e, rivolti alla Vergine Santa, anche noi le chiediamo “insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!”
Amen.



[1]Mt 4, 18 (Vangelo della Messa).
[2]Omelia per la Solennità dell’Immacolata 2011.
[3]Ivi.
[4]Gv 13, 36.
[5]Gal 1, 10 – 12.