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MARIA, LUCE NELLA LOTTA DELLA FEDE

Omelia di don Matteo Fabbri. Novena all’Immacolata, Duomo di Milano 2012
1 dicembre 2012, S. Messa vigiliare della III domenica di Avvento
“Se tu vivi con Dio, rifuggi dalla notte. (…) Chi è con Dio cammina nella luce e vive in comunione coi fratelli”[1]. Queste parole della liturgia vigiliare della III domenica di Avvento dipingono il quadro della fede cristiana vissuta nell’ambito della vita come vocazione. La nostra fede, lo consideravamo il primo giorno della nostra Novena in onore dell’Immacolata, è destinata a farsi vita, giorno per giorno. La fede diventa un cammino da percorrere. Come dicevamo ieri è un cammino all’inizio del quale c’è la chiamata divina che risuona nel cuore di ciascuno di noi.
Ma non è facile camminare nella luce. Non è facile rifuggire la notte. Ieri concludevano le nostre considerazioni invocando la Madonna come stella del mare, luce per i naviganti. Abbiamo bisogno di questa luce.
Ci serve molto considerare che la stessa vita della Madre di Dio ha conosciuto difficoltà e oscurità di ogni tipo.

Fin dai primi istanti della vita del Figlio di Dio su questa terra la povertà ha pervaso la sua esistenza; solo pochi giorni dopo, l’oscura minaccia del re Erode, geloso del suo potere, costringe la Sacra Famiglia alla fuga in Egitto. Passano pochi anni, e, di fronte all’inspiegabile comportamento di Gesù dodicenne che si ferma nel Tempio di Gerusalemme all’insaputa dei suoi, la Madonna e san Giuseppe non comprendono le sue parole, come l’evangelista afferma senza mezzi termini. La vita della Madonna, che pur nasce e si sviluppa all’insegna della fede, come risposta alla chiamata di Dio, non per questo non conosce difficoltà e oscurità, che culminano nella “notte” della Croce. La sofferenza indicibile della Madre di fronte al supplizio del Figlio Crocifisso non potrà mai essere da noi sufficientemente compresa.

Non meravigliamoci quindi che la stessa nostra vita di fede sia una lotta. Il nostro Arcivescovo ha sottolineato con ricchezza di particolari le prove alle quali è sottoposta la nostra fede. Dalle difficoltà che la famiglia come scuola di fede incontra di fronte alle mode e alle abitudini diffuse, alla tentazione di diffidare della definitività, “che induce a vivere di esperimenti e a costruire rapporti che appaiono attraenti per la strana ragione che si possono anche rinnegare”[2]; dalla tentazione dello scoraggiamento che può impossessarsi anche di genitori, educatori, sacerdoti, alla domanda insistente che proviene dalla comodità: “perché complicarsi tanto la vita?” “Non sarà tutto un’esagerazione?”.
La nostra fede si scontra con le difficoltà. La stessa coerenza del comportamento che è intrinsecamente richiesta da una fede matura è messa a dura prova: è molto facile cedere alle passioni, lasciarsi portare dal sentimento, non reggere alla fatica della testimonianza quando si deve nuotare contro corrente.
Contro corrente andò Giovanni il Battista, tanto da pagare con la vita la sua scomoda testimonianza. Egli non è un personaggio alla moda; il criterio del suo comportamento non è quello di attenersi al “politicamente corretto”: proclama piuttosto la verità a gran voce, invitando alla conversione. Mostra che il cammino, la strada che sta preparando per il Signore, non è una strada facile. È una strada affascinante, certamente, ma non facile. Scrive il nostro Cardinale: “Non a caso san Paolo, per indicare l’esistenza del cristiano, usa l’immagine della lotta (cfr. Fil 1, 30; Col 2, 1). Le prove non ci devono bloccare, neppure quelle causate dalla nostra fragilità. Persino il peccato, se riconosciuto con dolore, confessato e perdonato, è occasione di crescita. (…) È una strada di conversione”[3].
Noi stessi lo sappiamo perfettamente, perché la nostra stessa esperienza ce lo dice. Quante volte tocchiamo con mano la distanza immensa che c’è tra il desiderio di una vita santa, piena di Dio e le azioni quotidiane. Sembrano quasi mondi separati. La sapienza popolare dice: “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Tra il proclamare e il desiderare la vita santa dei figli di Dio da un lato, e la realizzazione concreta di questi desideri dall’altro c’è davvero di mezzo il mare; un mare spesso in tempesta, per giunta. Ci proponiamo volentieri, con slancio, di essere più caritatevoli con tutti e non ci rendiamo conto di rispondere alle persone più care con impazienza o con una indifferenza che ferisce. Dichiariamo la nostra fede cristiana e rischiamo a volte di cedere a vere e proprie ingiustizie nei confronti di colleghi di lavoro perché “così fan tutti”. Proclamiamo il nostro amore fedele, ma poi fatichiamo a vincere le tentazioni della sensualità, ritenendo che in fondo anche in questo non bisogna esagerare con i rigidi divieti. Comprendiamo in profondità la necessità della preghiera per la vita cristiana ma poi non sappiamo trovare il tempo quotidiano da dedicarvi; ci proclamiamo cristiani praticanti, ma a volte  preferiamo una scampagnata e rischiamo di perdere la Messa domenicale.
Troppe volte poi prendiamo i desideri per propositi e ci meravigliamo di non riuscire a metterli in pratica. Sembra, con parole di san Josemaría, che la volontà di essere coerenti con la nostra fede sia un “volere senza volere”[4]. Vogliamo, sì, ma non ad ogni costo. Non abbiamo nulla in contrario, per carità, ma neppure ci proponiamo con decisione di incorporare definitivamente alla nostra giornata quella pratica di pietà. Persino certe vite di santi ci sembrano esagerate e ci fanno sorridere… Un sorriso amaro, che non è quello di chi sa riconoscere taluni eccessi di certa agiografia, ma è piuttosto quello di chi tenta di ostentare un certo senso maturo di superiorità, ma che in fondo sa che gli manca decisione, forza, generosità nel perseguire l’ideale. Il Fondatore dell’Opus Dei lo esprimeva con la sua abituale chiarezza: “Sono molti i cristiani persuasi che la Redenzione si realizzerà in tutti gli ambienti del mondo, e che devono esserci delle anime – non sanno dire chi – che contribuiranno con Cristo a realizzarla. Però la vedono con prospettiva di secoli, di molti secoli…: sarebbero un’eternità, se la si portasse a compimento al ritmo del loro impegno. Così pensavi anche tu, fino a quando vennero a “svegliarti”.”[5] O, ancora: “Dalla mancanza di generosità alla tiepidezza non c’è che un passo”[6].
Ma allora la santità sarà davvero possibile? La conversione che desideriamo è un sogno irrealizzabile oppure ha diritto di cittadinanza nella nostra esistenza?
È ancora la liturgia che ci risponde, mettendo sulle nostre labbra la giusta preghiera: “Padre onnipotente, che hai redento l’uomo caduto schiavo della morte e l’hai risollevato a vita nuova con la morte e la risurrezione del Figlio tuo, rendici ogni giorno più conformi a lui…”[7].
La vita cristiana è certamente impegnativa. L’ideale è alto, ma non irraggiungibile. È possibile percorrere questo cammino sostenuti dalla grazia che Gesù stesso ci ha conquistato con il sacrificio della Croce.
Fiducia nella grazia, dunque; e di conseguenza impegno rinnovato per corrispondervi con generosità, giorno per giorno, con la tenacia e la costanza che gli sportivi dimostrano nei loro allenamenti: un giorno pochi secondi in meno, ma il giorno dopo va peggio, e si deve ricominciare. Cominciare e ricominciare, ogni giorno, con slancio rinnovato perché nuova è la grazia che il Signore ci offre.
Come in tutto, la Madonna ci è di incoraggiamento e di esempio. Ci siamo riferiti prima alla Mater dolorosa, alla scena commovente della Madonna ai piedi della Croce, che è seguita dalla deposizione. Molti artisti hanno voluto rappresentare plasticamente quel momento dell’apice del dolore della Madre di Dio, con il Figlio morto tra le braccia. Come non ricordare la Pietà di Michelangelo nella Basilica di san Pietro: un dolore composto e in qualche modo solenne. Ma mi piace ricordare anche che nel nostro Castello Sforzesco è custodita un’altra rappresentazione scultorea di Michelangelo che ritrae lo stesso soggetto: la Pietà Rondanini. Con la sua incompiutezza ci appare aspra e dura, tanto da dare l’impressione quasi fisica del dolore e della morte. Ma un particolare mi ha sempre colpito: tutta la composizione scultorea sembra costruita su un equivoco: è la Madonna che sorregge il cadavere di Cristo, certamente; eppure in qualche momento si ha l’impressione che sia il contrario, che sia cioè la Madonna ad appoggiarsi a Suo Figlio.
Qualunque sia stata l’intenzione dello scultore, possiamo trarre questo un insegnamento: ogni difficoltà si può superare, per quanto dura essa sia, appoggiandoci a Gesù. Egli stesso lo ha detto: “senza di me non potete fare nulla”[8]. O, con le parole profetiche proclamante poco fa: “Stillate cieli dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia.”: la giustizia, la salvezza è un dono di Dio. È Dio stesso che ci salva.
Ma come possiamo entrare in contatto con tutto ciò, con il Sacrificio Redentore, fonte e radice della nostra salvezza? Attraverso i sacramenti. Il Signore conosce la nostra debolezza, e proprio per questo ha voluto che il grande fatto della Redenzione, della Croce, non restasse un evento del passato, caduto nel dimenticatoio della storia. I sacramenti sono l’invenzione divina attraverso la quale oggi possiamo vivere, ricevere, accogliere tutta l’efficacia salvifica del Sacrificio Redentore. Quando per esempio ci accostiamo alla Confessione sacramentale, strumento necessario in via ordinaria per ottenere il perdono dei peccati mortali, nel sentire le parole del ministro che in persona Christi dice “io ti assolvo dai tuoi peccati”, è come se sentissimo risuonare le parole che Gesù ha pronunciato sulla Croce, rivolto al buon ladrone: “oggi sarai con me in Paradiso”[9].
Quando a Messa, come tra pochi istanti, il sacerdote ripete le parole della consacrazione, e si attua la transustanziazione, Cristo è presente, da quel momento, sotto le specie del pane e del vino e si perpetua nei secoli l’efficacia totale del sacrificio redentore: “Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice annunziamo la tua morte Signore nell’attesa della tua venuta”[10].
Ricorriamo quindi ai sacramenti con fede. Chiediamo alla Nostra Santissima Madre di aiutarci ad accostarci alla confessione sacramentale, come tante volte ci ha ricordato il nostro Arcivescovo. E quando ci sentiamo deboli, abbandonati, ricorriamo a Maria, secondo quella splendida preghiera di san Bernardo di Chiaravalle: “Se insorgeranno i venti delle tentazioni, se incorrerai negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. (…) Seguendo Lei, non sbagli strada; pregando Lei, non sarai disperato; pensando a Lei, non cadi in errore. Se Lei ti tiene, non cadrai; se Lei ti protegge, non avrai paura; se Lei ti guida, non ti stancherai; se Lei ti è propizia, giungerai alla meta”.
Sia lodato Gesù Cristo



[1]Liturgia vigiliare della III domenica di Avvento, Rito della luce.
[2]Alla scoperta del Dio vicino, n. 12.2.
[3]Alla scoperta del Dio vicino, n. 11.
[4]Cfr. Cammino, n. 714.
[5]Solco, n. 1.
[6]Ivi, n. 10.
[7]Liturgia vigiliare della III domenica di Avvento, Orazione.
[8]Gv 15, 5.
[9]Lc 23, 43.
[10]Ordinario della Messa.
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COMUNITA’ APERTE ALLO SPIRITO SANTO CHE CI PORTANO SEMPRE AVANTI, Omelia di Papa Francesco del 27 aprile 2013

Riporto quasi integralmente le parole dell’omelia di Papa Francesco nella messa del sabato della quarta settimana del tempo pasquale, 27 aprile 2013, si è soffermato a commentare la lettura degli atti degli Apostoli: Paolo e Barnaba sono a d Antiochia, e il sabato si raduna quasi tutta la città per ascoltarli e ciò suscita la gelosia dei Giudei, e le loro parole ingiuriose. Alla Messa nella Casa di Santa Marta, in Vaticano, hanno partecipato i dipendenti del servizio Poste Vaticane e del Dispensario pediatrico Santa Marta.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore:
Io ti ho posto per essere luce delle genti,
perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo. (At 13, 44-52)
Il Papa ha iniziato l’omelia  la gioia della comunità dei discepoli, riuniti ad Antiochia per ascoltare la parola del Signore: “Sembrava che questa felicità non sarebbe mai stata vinta”.
Poi si è domandato perché la comunità dei “giudei chiusi, un gruppetto di persone buone furono ricolmi di gelosia nel vedere la moltitudine dei cristiani e incominciarono a perseguitarli:
“Semplicemente, perché avevano il cuore chiuso, non erano aperti alla novità dello Spirito Santo. Loro credevano che tutto fosse stato detto, che tutto fosse come loro pensavano che dovesse essere e perciò si sentivano come difensori della fede e incominciarono a parlare contro gli Apostoli, a calunniare… La calunnia… E sono andati dalle pie donne della nobiltà, che avevano potere, gli hanno riempito la testa di idee, di cose, di cose, e le spingevano a parlare ai loro mariti perché andassero contro gli Apostoli. Questo è un atteggiamento di questo gruppo e anche di tutti i gruppi nella storia, i gruppi chiusi:

patteggiare col potere, risolvere le difficoltà ma ‘fra noi’… Come hanno fatto quelli, la mattina della Resurrezione, quando i soldati sono andati a dir loro: ‘Abbiamo visto questo’… ‘State zitti! Prendete…”. E con i soldi hanno coperto tutto. Questo è proprio l’atteggiamento di questa religiosità chiusa che non ha la libertà di aprirsi al Signore. La loro vita comunitaria per difendere sempre la verità, perché loro credono di difendere la verità, è sempre la calunnia, il chiacchierare… Davvero, sono comunità chiacchierone, che parlano contro, distruggono l’altro e guardano dentro, sempre dentro, coperte col muro. Invece la comunità libera, con la libertà di Dio e dello Spirito Santo, andava avanti, anche nelle persecuzioni. E la parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. E’ proprio della comunità del Signore andare avanti, diffondersi, perché il bene è così: si diffonde sempre! Il bene non si corica dentro. Questo è un criterio, un criterio di Chiesa, anche per il nostro esame di coscienza: come sono le nostre comunità, le comunità religiose, le comunità parrocchiali? Sono comunità aperte allo Spirito Santo, che ci porta sempre avanti per diffondere la Parola di Dio, o sono comunità chiuse, con tutti i comandamenti precisi, che caricano sulle spalle dei fedeli tanti comandamenti, come il Signore aveva detto ai Farisei? La persecuzione incomincia proprio per motivi religiosi e per la gelosia, ma i discepoli erano pieni di gioia di Spirito Santo, parlano con la bellezza, aprono strade. Invece la comunità chiusa, sicura di se stessa, quella che cerca la sicurezza proprio nel patteggiare col potere, nei soldi, parla con parole ingiuriose: insultano, condannano… E’ proprio il suo atteggiamento. Forse si dimenticano delle carezze della mamma, quando erano piccoli. Queste comunità non sanno di carezze, sanno di dovere, di fare, di chiudersi in una osservanza apparente. Come Gesù gli avete detto: ‘Voi siete come una tomba, come un sepolcro, bianco, bellissimo, ma niente di più’. Pensiamo oggi alla Chiesa, tanto bella: questa Chiesa che va avanti. Pensiamo ai tanti fratelli che soffrono per questa libertà dello Spirito e soffrono persecuzioni, adesso, in tante parti. Ma questi fratelli, nella sofferenza, sono pieni di gioia e di Spirito Santo. Guardiamo Gesù che ci invia a evangelizzare, ad annunciare il suo nome con gioia, pieni di gioia. Non dobbiamo aver paura della gioia dello Spirito, così da non chiuderci in noi stessi.

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LASCIARE CHE GESU’ PREPARI IL NOSTRO CUORE – Papa Francesco 26 aprile 2013


Trascrivo le parole dell’omelia del Papa nella Messa del 26 aprile 2013 celebrata nella Casa di Santa Marta, alla quale hanno assistito alcuni dipendenti della Tipografia Vaticana, della Gendarmeria e dell’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica. Riporto il Vangelo del giorno perché si veda come l’omelia del Papa è commento della Parola di Dio proclamata nella liturgia.


In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno  viene al Padre se non per mezzo di me. (Gv 14, 1-6)

Non sia turbato il vostro cuore. Queste parole di Gesù sono proprio parole bellissime. In un momento di congedo, Gesù parla ai suoi discepoli, ma proprio dal cuore. Lui sa che i suoi discepoli sono tristi 

perché se ne accorgono che la cosa non va bene. Lui dice: Ma non sia turbato il vostro cuore. E comincia a parlare così, come un amico, anche con l’atteggiamento di un pastore. Io dico: la musica di queste parole di Gesù è l’atteggiamento del pastore, come il pastore fa con le sue pecorelle, no?… Ma non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio, anche in me. 

 E comincia a parlare di che? Del cielo, della patria definitiva. Abbiate fede anche in me: io rimango fedele, è come se dicesse quello, no? … Con la figura dell’ingegnere, dell’architetto dice loro quello che andrà a fare: Vado a prepararvi un posto, nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. E Gesù va a prepararci un posto. Com’è quel posto? Cosa significa ‘preparare il posto? Affittare una stanza lassùPreparare il posto è preparare la nostra possibilità di godere, la possibilità – la nostra possibilità – di vedere, di sentire, di capire la bellezza di quello che ci aspetta, di quella patria verso la quale noi camminiamo. E tutta la vita cristiana è un lavoro di Gesù, dello Spirito Santo per prepararci un posto, prepararci gli occhi per poter vedere…

 ‘Ma, Padre, io vedo bene! Non ho bisogno degli occhiali!’: ma quella è un’altra visione…. Pensiamo a quelli che sono malati di cataratta e devono farsi operare la cataratta: loro vedono, ma dopo l’intervento cosa dicono? ‘Mai ho pensato che si potesse vedere così, senza occhiali, tanto bene!’. 

Gli occhi nostri, gli occhi della nostra anima hanno bisogno, hanno necessità di essere preparati per guardare quel volto meraviglioso di Gesù. Preparare l’udito per poter sentire le cose belle, le parole belle.

E principalmente preparare il cuore: preparare il cuore per amare, amare di più. Nel cammino della vita il Signore prepara il nostro cuore con le prove, con le consolazioni, con le tribolazioni, con le cose buone. Tutto il cammino della vita è un cammino di preparazione. Alcune volte il Signore deve farlo in fretta, come ha fatto con il buon ladrone: aveva soltanto pochi minuti per prepararlo e l’ha fatto. Ma la normalità della vita è andare così, no?: lasciarsi preparare il cuore, gli occhi, l’udito per arrivare a questa patria. Perché quella è la nostra patria. Ma, Padre, io sono andato da un filosofo e mi ha detto che tutti questi pensieri sono una alienazione, che noi siamo alienati, che la vita è questa, il concreto, e di là non si sa cosa sia…’. Alcuni la pensano così… ma Gesù ci dice che non è così e ci dice: ‘Abbiate fede anche in me’. Questo che io ti dico è la verità: io non ti truffo, io non ti inganno. Prepararsi al cielo è incominciare a salutarlo da lontano. Questa non è alienazione: questa è la verità, questo è lasciare che Gesù prepari il nostro cuore, i nostri occhi per quella bellezza tanto grande. È il cammino della bellezza e il cammino del ritorno alla patria. Che il Signore ci dia ‘questa speranza forte’, il coraggio e anche l’umiltà di lasciare che il Signore prepari la dimora, la dimora definitiva, nel nostro cuore, nei nostri occhi e nel nostro udito. Così sia”.

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VERSO LE PERIFERIE DELL’ESISTENZA. Lettera di Papa Francesco ai Vescovi Argentini

Il 18 aprile 2013 é stata resa nota la bellissima lettera che Papa Francesco ha scritto il 25 marzo scorso ai vescovi argentini riuniti in Assemblea Plenaria al Santuario della Madonna del Pilar fino al 20 aprile 2013. Don Mauro Leonardi ha pubblicato una sua traduzione sul suo bolg Come Gesù, perchè ha notato che le traduzioni parziali diffuse,  non lo hanno  soddisfatto. Anch’io so per esperienza che non è facile, come sembra, tradurre bene dallo spagnolo all’italiano. Gli è sembrato che non trasmettessero l’immediatezza con cui Papa Francesco scrive e la forza delle sue frasi. Inoltre è molto bello avere una traduzione integrale, che pare non si trovi altrove. A me piace la traduzione di don Mauro e quindi volentieri la pubblico (fra l’altro inserisce anche alcune utili spiegazioni). Al suo testo ho inserito alcune lievi modifiche sempre nella linea della letteralità, che lui ha accolto e integrato nella sua versione.  In fine pubblico anche l’originale in spagnolo.
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Città del Vaticano, 25 marzo 2013
Fratelli carissimi,
vi scrivo queste righe per salutarvi e anche per scusarmi per non essere lì con voi per “impegni assunti da poco” (suona bene?) anche se sono con voi spiritualmente e chiedo al Signore che Lui vi stia molto vicino nei prossimi giorni.
Vi esprimo un desiderio: mi piacerebbe che i lavori dell’Assemblea [è l’Assemblea Plenaria della Conferenza Episcopale Argentina che si è conclusa a Pilar il 20 aprile 2013, ndt] abbiano come cornice di riferimento il documento di Aparecida “Prendere il largo”. Lì ci sono gli orientamenti di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia. Soprattutto vi chiedo di avere un’attenzione particolare alla crescita dell’azione missionaria continentale in due aspetti: missione programmatica e missione paradigmatica. Tutta la pastorale deve essere svolta in chiave missionaria. Dobbiamo uscire da noi stessi e muoverci verso le periferie dell’esistenza umana e crescere in parresia [cioè nell’esprimere con franchezza e libertà la verità, ndt]. Una Chiesa che non esce da se stessa, prima o poi, si ammala a causa dell’aria viziata che respira stando nelle sua stanza chiusa. È anche vero che a una Chiesa che esce allo scoperto può succedere quello che può avvenire a chiunque vada per strada: e cioè di avere un incidente.

Ma, di fronte a questa alternativa, vi voglio dire francamente che preferisco mille volte un Chiesa ferita che una Chiesa ammalata. La malattia tipica della Chiesa chiusa è l’autoreferenzialità; guardare se stessa, essere incurvata su se stessa come quella donna del vangelo [fa riferimento alla donna di cui il vangelo dice: “C’era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo.” Lc 13,11, ndt]. È una specie di narcisismo che ci spinge prima a una sorta di mondanità spirituale e di sofisticato clericalismo, e poi ci impedisce di sperimentare “la dolce e confortante gioia di evangelizzare”.

Auguro a tutti voi questa gioia, che tante volte è unita alla Croce, e che ci salva dal risentimento, dalla tristezza, e dall’essere degli scapoloni clericali. Questa gioia ci aiuta ad essere ogni giorno più fecondi, spendendoci e sfibrandoci al servizio del santo popolo fedele di Dio; questa gioia crescerà sempre di più nella misura in cui prenderemo sempre più sul serio quella conversione pastorale che ci chiede la Chiesa.
Grazie per tutto quello che fate e per tutto quello che farete. Che il Signore ci liberi dalla tentazione di abbellire con maquillage il nostro episcopato attraverso gli orpelli della mondanità, del denaro e di un “clericalismo alla moda”. La Madonna vi mostrerà la strada dell’umiltà, del lavoro silenzioso e coraggioso che é sospinto dallo zelo apostolico.
Vi chiedo, per favore, di pregare per me affinché non mi creda chissà chi e sappia ascoltare ciò che vuole Dio e non ciò che voglio io. Prego per voi.
Un abbraccio da fratello e uno speciale saluto al popolo fedele di Dio che vi é affidato. Vi auguro un tempo pasquale santo e felice. Che Gesù vi benedica e la Madonna abbia cura di voi.
Fraternamente, Papa Francesco
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Queridos Hermanos:
Van estas líneas de saludo y también para excusarme por no poder asistir debido a “compromisos asumidos hace poco” (¿Suena bien?) Estoy espiritualmente junto a Ustedes y pido al Señor que los acompañe mucho en estos días.
Les expreso un deseo: Me gustaría que los trabajos de la Asamblea tengan como marco referencial al Documento de Aparecida y “Navega mar adentro”. Allí están las orientaciones que necesitamos para este momento de la historia. Sobre todo les pido que tengan una especial preocupación por crecer en la misión continental en sus dos aspectos: misión programática y misión paradigmática. Que toda la pastoral sea en clave misionera. Debemos salir de nosotros mismos hacia todas las periferias existenciales y crecer en parresía.
Una Iglesia que no sale, a la corta o a la larga, se enferma en la atmósfera viciada de su encierro. Es verdad también que a una Iglesia que sale le puede pasar lo que a cualquier persona que sale a la calle: tener un accidente. Ante esta alternativa, les quiero decir francamente que prefiero mil veces una Iglesia accidentada que una Iglesia enferma. La enfermedad típica de la Iglesia encerrada es la autorreferencial; mirarse a sí misma, estar encorvada sobre sí misma como aquella mujer del Evangelio. Es una especie de narcisismo que nos conduce a la mundanidad espiritual y al Les deseo a todos Ustedes esta alegría, que tantas veces va unida a la Cruz, pero que nos salva del resentimiento, de la tristeza y de la soltenoría clerical. Esta alegría nos ayuda a ser cada día más fecundos, gastándonos y deshilachándonos en el servicio al santo pueblo fiel de Dios; esta alegría crecerá más y más en la medida en que tomemos en serio la conversión pastoral que nos pide la Iglesia.
Gracias por todo lo que hacen y por todo lo que van a hacer. Que el Señor nos libre de maquillar nuestro episcopado con los oropeles de la mundanidad, del dinero y del “clericalismo de mercado” sofisticado, y luego nos impide experimentar “la dulce y confortadora alegría de evangelizar”. La Virgen nos enseñará el camino de la humildad y ese trabajo silencioso y valiente que lleva adelante el celo apostólico.
Les pido, por favor, que recen por mí, para que no me la crea y sepa escuchar lo que Dios quiere y no lo que yo quiero. Rezo por Ustedes.
Un abrazo de hermano y un especial saludo al pueblo fiel de Dios que tienen a su cuidado. Les deseo un santo y feliz tiempo pascual.

Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
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Fraternalmente,
Vaticano, 25 de marzo de 2013

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LA PREGHIERA DELLA MANO, DI PAPA FRANCESCO

A Buenos Aires quindici anni fa, il Vescovo mons. Bergoglio compone una semplice preghiera, che prende spunto dalla struttura della mano: una preghiera per ogni dito. Fin dai primi giorni dopo la sua elezione a Vescovo di Roma, circolava sul web. Piace molto ai bambini, ma anche a chi sa farsi bambino nella preghiera. Per facilitarne la conoscenza la ripropongo qui, anche nell’originale. Ricordiamoci che la mano ha tantissime risonanze umane, affettive, culturali, poetiche, bibliche. Nel libro di Isaia (49,16), Dio ci dice che ci ha disegnato sulle palme delle sue mani, per questo non si dimenticherà di noi, nemmeno se una madre si dimenticasse del suo figlio. Gesù prende per mano per guarire la figlia di Giairo, la suocera di Pietro, il cieco di Betsaida, per salvare Pietro che affonda nel lago…e le sue mani piagate dai chiodi della croce e risorte, diventano segno perenne della sua passione e verità della sua resurrezione per l’apostolo Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani” gli dice Gesù,  e per tutti noi. Per molte anime cristiane la preghiera significa mettersi nelle sue mani, e ancor più trovare rifugio nelle sue piaghe. Continuano ad essere le sue mani che, attraverso la Chiesa, ci versano sul capo l’acqua del battesimo, e attraverso quelle del Vescovo e dei sacerdoti ci segnano con il crisma sulla fronte, nella cresima, ci benedicono, ci assolvono  nella confessione. Distese sul pane e sul vino fanno discendere lo Spirito Santo che poi transustanzia quel frutto della terra e del lavoro dell’uomo, nel corpo e nel sangue di Cristo. Mi è venuta in mente la mano del Papa che benedice, saluta, accarezza i bambini e i malati. Mano di Cristo ancora presente tra noi.
 

1. Il pollice è il dito a te più vicino. Comincia quindi col pregare per coloro che ti sono più vicini. Sono le persone di cui ci ricordiamo più facilmente. Pregare per i nostri cari è “un dolce obbligo”.

2. Il dito successivo è l’indice. Prega per coloro che insegnano, educano e curano. Questa categoria comprende maestri, professori, medici e sacerdoti. Hanno bisogno di sostegno e saggezza per indicare agli altri la giusta direzione. Ricordali sempre nelle tue preghiere.
3. Il dito successivo è il più alto. Ci ricorda i nostri governanti. Prega per il presidente, i parlamentari, gli imprenditori e i dirigenti. Sono le persone che gestiscono il destino della nostra patria e guidano l’opinione pubblica… Hanno bisogno della guida di Dio.
4. Il quarto dito è l’anulare. Lascerà molti sorpresi, ma è questo il nostro dito più debole, come può confermare qualsiasi insegnante di pianoforte. È lì per ricordarci di pregare per i più deboli, per chi ha sfide da affrontare, per i malati. Hanno bisogno delle tue preghiere di giorno e di notte. Le preghiere per loro non saranno mai troppe. Ed è li per invitarci a pregare anche per le coppie sposate.
5. E per ultimo arriva il nostro dito mignolo, il più piccolo di tutti, come piccoli dobbiamo sentirci noi di fronte a Dio e al prossimo. Come dice la Bibbia, “gli ultimi saranno i primi”. Il dito mignolo ti ricorda di pregare per te stesso… Dopo che avrai pregato per tutti gli altri, sarà allora che potrai capire meglio quali sono le tue necessità guardandole dalla giusta prospettiva.                                                                           
(Traduzione di Graziella Filipuzzi)
Una oración en cada dedo
 

1. El pulgar es el más cercano a ti. Asi que empieza orando por quienes estan más cerca de ti. Son las personas más fáciles de recordar. Orar por nuestros seres queridos es “una dulce obligación”

2. El siguiente dedo es el indice. Ora por quienes enseñan, instruyen y sanan. Esto incluye a los maestros, profesores, médicos y sacerdotes. Ellos necesitan apoyo y sabiduria para indicar la dirección correcta a los demás.
Tenlos siempre presentes en tus oraciones.
3. El siguiente dedo es el más alto. Nos recuerda a nuestros líderes. Ora por el presidente, los congresistas, los empresarios, y los gerentes. Estas personas dirigen los destinos de nuestra patria y guian a la opinión pública… Necesitan la guia de Dios.
4. El cuarto dedo es nuestro dedo anular. Aunque a muchos les sorprenda, es nuestro dedo más debil, como te lo puede decir cualquier profesor de piano. Debe recordarnos orar por los más debiles, con muchos problemas o postrados por las enfermedades. Necesitan tus oraciones de día y de noche. Nunca será demasiado lo que ores por ellos. También debe invitarnos a orar por los matrimonios.
5. Y por último está nuestro dedo meñique, el más pequeño de todos los dedos, que es como debemos vernos ante Dios y los demás. Como dice la Biblia “los últimos serán los primeros”. Tu meñique debe recordarte orar por tí… Cuando ya hayas orado por los otros cuatro grupos verás tus propias necesidades en la perspectiva correcta, y podrás orar mejor por las tuyas.
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CONTEMPLAZIONE

Ecco un altro breve scritto, denso e folgorante come sempre, di don Valentino Guglielmi, sulla contemplazione. Si affaccia un risvolto a lui molto caro: la contemplazione è anche contemplazione del volto della persona. In particolare della persona amata. Il tutto parte e matura nel dialogo con Dio, e porta frutti di amore umano e di pienezza. (foto di Sofia Mardegan)

Il desiderio della felicità e la realizzazione di me stesso nel traboccare della libertà, cioè di me stesso, si maturano nell’amore. Non si tratta di un seme che mi sia stato donato perché lo gestisca mettendolo a dimora nel mio cuore e lo coltivi, sono io stesso quel seme a cui tocca l’impresa di germogliare e dare frutto. Se considero il seme come cosa mia distinta da me corro il pericolo di rimanere incapace di crescere, potrò diventare saccente ed antipatico, il Pierino della classe.

Quando capisco che il seme sono io, mi consegno alla bellezza di quanto mi sta intorno
e mi lascio modificare senza sapere in anticipo che cosa diventerò mi accorgo di essere portato senza fatica da Qualcuno che mi conosce e mi ama più di quanto sia capace di fare da me stesso.
L’impegno che tocca a me sta nell’imparare l’arte della contemplazione, nella quale coltivo l’amore in una prospettiva capace di andare oltre il sentimentalismo dei sogni adolescenti per cercare lo spessore esistenziale della persona che amo. Nel sentire corrente la parola contemplazione sembra di provenienza esoterica, adatta ad ambienti rarefatti come gli eremi o i monasteri. Forse per questo non invoglia tanto la ricerca. In realtà si tratta di un esercizio piuttosto facile, accessibile a persone di ogni categoria quale che sia la condizione del loro vivere.
Si procede in questo modo: si pone mente ad ogni barbaglio di luce che rischiara il volto di una persona e ad ogni altro particolare per quanto piccolo che si riesca a cogliere. Di solito si tratta di messaggi rapidi quanto il battere delle ciglia. Possono essere affascinanti o banali o pure irritanti.
A partire da quei dettagli si risale al soggetto che ne è titolare verso la ricerca della sua unicità e della sua solitudine. Mi dovrò rendere conto che mi trovo di fronte ad un altro me stesso fatto in modo diverso da me.
La struttura elementare ed irriducibile della persona è data dal fatto che appartiene a se stessa per diritto inalienabile originato dal dono di Dio. Occorre trattenersi a mollo nell’orazione, vale a dire in dialogo con il Creatore tenendo per un po’ di tempo la cosa nel cuore esattamente come si tiene in bocca un cioccolatino perché si lasci conoscere dando fuori tutto il suo sapore.
La seconda parte dell’operazione consiste nel trovare le parole capaci di comunicare ogni novità percepita. La fatica vale bene la candela. Realizza un triplice obiettivo: porta a compimento la conoscenza, da stabilità al cuore e sorprende il partner a cui la parola nuova è donata. 

4 novembre 2004
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LA PESCA, LA FAMIGLIA, L’APOSTOLATO: I TRE LAVORI DI PIETRO CON GESU’ RISORTO (Gv 21, 1-19)

Tra gli splendidi racconti pasquali dei Vangeli vi è quello della pesca miracolosa dei centocinquatré grossi pesci sul lago di Tiberiade narrato nel Vangelo di Giovanni (Gv 21, 1-19). Lo meditiamo qui mettendo in evidenza la dimensione del lavoro e la chiamata a trasformarlo in preghiera, in vita contemplativa e in azione apostolica.

Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.  
Io vado a pescare, dice Pietro, da uomo pieno di iniziativa qual è. Uomo lavoratore, non sa stare con le mani in mano. Si sente inutile se non si guadagna il pane, anzi i pesci, con le sue mani. Si sente arrugginire il corpo se sta troppo seduto. Le braccia hanno bisogno di remare, di tenere forte il timone, di sospingere reti a fondo e di tirarle su. Altrimenti protestano e gli dicono: cosa ci stiamo a fare? A inflaccidire per l’inattività, a diventare braccine da intellettuali. E’ come se tutto il suo essere avesse bisogno di respirare di nuovo brezza del lago, e brezza notturna, quella fredda e umida che fa presagire la pesca abbonante. In particolare le sue narici, i polmoni, che inalano gioiosi tutto quel ben di Dio. Il vento che a volte si fa pericoloso, ma come si fa a vivere senza il suo rumore e la sua forza? E soprattutto dopo quei giorni così pieni di emozioni fortissime. Dopo quell’ultima cena, il tradimento di Giuda, i bastoni, le guardie, l’orecchio di Malco, il fuocherello della serva e quella stupida paura,

e il suo rinnegare il Cristo, quel Cristo che lui stesso aveva riconosciuto grazie al Padre del cielo, non per carne o sangue, ma per ispirazione divina. Lo sguardo perdonante di Gesù. Le lacrime amare. La croce vista da lontano. La paura dei giudei. Il cenacolo chiuso. Le donne, quelle donne che nessuno le tiene ferme! Il sepolcro l’hanno visto vuoto di primo mattino. E la corsa con Giovanni. E il Maestro che appare la sera e ci da quel compito così grande! E le sue piaghe! Con Tommaso a vederle e a toccarle con mano. Lo sconvolgimento è grande, la gioia è troppo forte. Ci vuole un po’ di pesca, di odori e movimenti conosciuti. Vediamo se mettiamo di nuovo i piedi per terra, questa terra, questa sabbia e questo lago da Lui visitati, calpestati… si può dire così anche per le acque, e io pure ci ho provato a camminarci su, perché Lui ti spinge ti porta, ti fa fare follie.

Andiamo a pescare! Veniamo anche noi con te! E gli altri vanno con lui. Ha letto nel loro desiderio, nel loro pensiero. E poi non vogliono più lasciarlo adesso che è cosi chiaro che è il capo di una realtà nuova, e poi forse stando con Pietro, torna Gesù che nessuno sa dove sta, e dove si mostra. Così, andando insieme a pescare, Pietro e gli altri sei vivono una metafora del lavoro della Chiesa, ma vivono anche la realtà del loro lavoro quotidiano, lavoro del cristiano:  pescatore che peschi , muratore che porti la malta, ciabattino che tagli le tomaia, fruttivendola che vendi la frutta, cuoca che impasti la farina, regina che governi il tuo popolo: tutti guardate questo antico Adamo che lavora il suo campo e, come fu dall’inizio, da dopo quel peccato primordiale, assapora fatica e sudore e campo che non da frutti, lago che non da pesci, negozio che non vende, ciambella che non riesce col buco. Però quello di Pietro è lavoro bello, desiderabile, professionalmente ben fatto: non tutti i lavori fatti bene riescono a dare ciò che promettono. C’è l’imponderabile, la legge della Genesi, del cardo con le spine. Quanti contadini avevano lavorato bene e la grandine si portò via tutto. Quanti mandriani dovettero seppellire le proprie bestie attaccate da un virus letale, o da bestie feroci. Muratori ricostruire case terremotate. E’ lavoro difficile dall’incerto risultato, ma che appassiona, ed è lavoro condiviso. Su quella barca c’è un coro sinfonico di collaborazione. Non c’è su quella barca, nessun accenno di voler fare per conto proprio; o critica alla rotta segnalata dal comandante. Le reti si sollevano e si lanciano tutti insieme.  E quel lavoro, lavoro per mangiare, per vendere quei pesci al mercato, se fossero in sovrappiù, lavoro per vivere, quel lavoro è guardato da Gesù. Dalla riva. Solo dalla riva? Forse é guardato dalla barca, stava con loro tutta la notte. Senza essere visto. E a pensarci bene (ma non ci arrivarono subito), Gesù viveva dentro a ciascuno di loro. Perché lo amavano e osservavano tra loro il comandamento di amarsi come Lui li aveva amati, e allora Lui, come aveva promesso (Gv 14, 23) era già andato con il Padre a prendere dimora presso ciascuno di loro. Perché si stavano nutrendo già dell’eucaristia, stavano già ripetendo in memoria di lui, quella cena e dicevano con le sue parole, le sue stesse parole: “Questo è il mio corpo” sul pane, “questo è il mio sangue”, sul vino. E poi se lo distribuivano, e se ne cibavano assorti. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui, aveva promesso (Gv 6, 56). E Gesù così rimaneva in loro. E quando due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro, aveva detto. E loro stavano insieme nel suo nome. Dunque pescava con loro quella notte, in un modo che loro non sapevano. Dunque anche quello, il loro lavoro antico, imparato dai loro padri, tramandato per generazioni,era diventato  un lavoro umano e divino, dopo la risurrezione di Cristo. Più di prima, perchè anche prima il loro lavoro era sempre sotto lo sguardo di Dio sorridente e compiaciuto: vedeva compiersi la loro vocazione primordiale, il compito di migliorare la terra e di assoggettare la creazione, in armonia. Più di prima. Adesso quel lavoro aveva a che vedere direttamente con la Pasqua di Gesù. Con la sua morte in croce e la risurrezione. Quel suo lavoro, divino e umano,, per la nostra redenzione! E Gesù glielo fa capire guardandoli dalla riva. Ancora una volta Lui rivolge una domanda, lui che sa già tutto. Domanda e così include, coinvolge, lascia liberi, chiama alla relazione: se volete. Non impone il suo sapere, non fa l’antipatico. Lascia lo spazio libero della fede. Figlioli, non avete nulla da mangiare?Figlioli dice, perché chi vede Lui  vede il Padre (Gv 14,9). Il nostro lavoro quotidiano, diurno e notturno, è guardato da Gesù, contemplato da Lui, dalla riva, dalla barca, dalla sede del nostro cuore. Ci incoraggia, ci aiuta a terminarlo bene, ci dà l’incremento della sua grazia, perché porti buon frutto, o ci aiuta ad offrirglielo se comunque il bene non arriva: come la sua croce che pareva il fallimento di tutto il suo lavoro, e poi fiorì nella risurrezione.

Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Arrivato sulla riva Pietro, grondante acque di lago e gioia mattutina, trova già Gesù al lavoro: braci accese, pesce sopra: Gesù non è arrivato a mani vuote nell’autoinvitarsi a colazione, né, come è abituato, si lascia servire, anzi comincia lui l’incarico della colazione del mattino, comprare pane fresco, riscaldare il latte, fare un buon caffè e una abbondante spremuta d’arancia. Pietro collabora, e gli altri pure. E’ Gesù stesso che guida le operazioni. E’ lui oggi di turno.  E’ stato attento a non portare pesci per tutti. Solo un po’, la sua parte, perché non sembrasse loro che il loro lavoro della notte fosse stato inutile. Anzi è subito utile: portate del pesce  freschissimo e buonissimo che avete voi, con la vostra bravura e tenacia,  preso or ora. In questo modo anche il secondo lavoro di Pietro e di tutti gli altri, quel lavoro che che occupa tutti gli uomini e le donne, le donne sempre in misura più grande perché ne sono più capaci e sono più rapide e più esperte, il lavoro della casa, il lavoro della famiglia: tenere su la casa, la famiglia, preparare pranzi e cene, lavare le stoviglie, pulire tutto. Organizzare un gita e il pranzo al sacco. Cambiare lampadine fulminate. Mettere i fiori. Fare la spesa e portare i bambini a scuola. Educare. Riparare i guasti. Dare tempo. Buttare le spazzatura. Stare insieme. Aiutare i nipoti a studiare, a fare i compiti e preparare le interrogazioni. Ascoltare e consigliare. Tutto questo lavoro familiare, avviene, come il lavoro della professione, sotto lo sguardo di Gesù, anzi con il suo esempio, la sua esperienza, le sue stesse mani. Gesù ha portato anche del pane. Pietro sale sulla barca a prendere i pesci: il lavoro della pesca è in continuità con quello della famiglia. Non è in contrasto. Anzi è a servizio della serenità familiare. Gesù presiede, come padre, la famiglia, e distribuisce il cibo. 

Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Dopo colazione un po’ di riposo. Una chiacchierata distensiva. Un confidenza familiare. In quella pausa Gesù parla a Pietro del suo terzo lavoro, quello dell’apostolo, del pastore di tutta la Chiesa, di cui il lavoro professionale della pesca è matafora: andare in tutto il mondo a portare il Vangelo, confermare nella fede i suoi fratelli e sorelle, insegnare con la sua parola ciò che Dio ha rivelato, nutrirli con la grazia dell’eucaristia e degli altri sacramenti, governarli. Tutti questo è amore di Cristo. Mi ami tu? Pasci. Non c’è differenza tra amore di Gesù e opere di ministero, di apostolato, di fraternità, di sacerdozio. Anche nel terzo lavoro Gesù è presentissimo: gli agnelli sono suoi, le pecorelle sono sue. Uomini e donne della chiesa: sono suoi. Uomini e donne tutti creati da Dio: sono suoi. Pietro quando da loro il cibo opportuno, lo da agli agnelli di Gesù, alle pecore di Cristo. Non sono agnelli e pecore di Pietro: sono di Gesù. E nel pascerli, sta amando Cristo. Gli da Cristo, le sue parole, la sua grazia, il suo corpo e il suo sangue. Come è presente Gesù nel terzo lavoro di Pietro! Ma anche nel primo e nel secondo. E’ presente anche nel  riposo, che gli da occasione di parlare del terzo lavoro. Già. Perché meravigliarsi? Aveva detto ai suoi discepoli: io sono il vostro riposo, il vostro sabato. Venite a me che vi ristorerò. Se il sabato del Verbo era contemplare la creazione bellissima dell’uomo e della donna,  adesso, la domenica di Gesù, del Padre e dello Spirito Santo, consiste nel contemplare l‘opera della redenzione che hanno fatto e che è bellissima: l’uomo e la donna che lavorano redenti, che amano redenti, e che sono da lui salvati, e che si adoperano, figli nel Figlio,  per il bene sulla terra, per diffondere l’opera della redenzione. Così la nostra domenica, la nostra Messa, la nostra orazione, la nostra contemplazione, è una lavoro fatto con Lui, una colazione invitati da Lui, un riposo sull’erba, in riva al lago, il sole che già si alza in cielo e ci scalda, e Lui che ci parla del nostro terzo lavoro, ci incoraggia a riprenderlo, nel caso possa essere  successo, in quel terzo lavoro,  come in quella notte di pesca senza pesca, che ci appaia inutile e senza frutto. Riprenderlo per amore suo e delle pecore e degli agnelli che sono suoi. E in questo dialogo ci dirà che solo apparentemente quei tre lavori sono distinti. Sono tutti sotto il  suo sguardo, e così é Lui che li unifica, e quando facciamo la nostra professione o curiamo la nostra famiglia e la nostra casa stiamo già facendo l’opera divina della redenzione. Stiamo già pascendo i suoi agnelli e le sue pecore, lo stiamo amando, lo stiamo seguendo, da vicino, come Pietro. 
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SIMONE FIGLIO DI GIOVANNI MI AMI? Gesù affida il perdono dei peccati, atto d’amore, agli apostoli

Terza domenica di Pasqua, pesca miracolosa dei centocinquantatré grossi pesci, Pietro che si tuffa verso Gesù, Simone di Giovanni, mi ami? Nel mio libro IL SACRAMENTO DELLA GIOIA, dopo aver meditato sullo sbandamento di Pietro, ammiro come Gesù affida a lui e agli altri il sacramento della sua misericordia. Propongo i due brevi brani pasquali pubblicati nel capitolo su Pietro.

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,19-23).
 La Maddalena quel mattino di Pasqua, era andata presto al sepolcro. Era ancora buio, ma lei non riusciva a dormire. Vide la pietra ribaltata e il corpo di Gesù sparito. Corse allora – quella sì che fu una mattinata di corse – e andò direttamente da Pietro che era il capo. Corsero Pietro e Giovanni verso il sepolcro. E Giovanni vide come stavano le bende nel sepolcro e credette in Gesù  risorto.
Tutto il giorno ne parlarono, soprattutto dopo la seconda corsa di Maddalena, che l’aveva visto e  abbracciato ed era volata dagli apostoli a rivelarlo. La sera entrò Gesù da loro, con le porte chiuse. Ma le mani, il costato e pure l’appetito di pesce, non erano quelli di un fantasma.
Soffiò su di loro – questa è come una nuova creazione – e i suoi apostoli furono pieni di Spirito Santo e da allora ebbero la potestà, nel nome di Gesù, di  perdonare i peccati alitando a loro volta lo Spirito Santo su tutte le persone che avrebbero chiesto loro il perdono di Dio.

A così poca distanza dal suo peccato Pietro poté perdonare i peccati degli altri. Al posto di Gesù e nel suo nome. E’ come se Gesù gli avesse fatto capire: Ora  che  hai fatto l’esperienza della tua debolezza e del mio perdono, ora sei in grado di  valutare i peccati, di verificare il pentimento, di essere strumento della mia misericordia, di accordare agli altri il mio perdono con l’ampiezza del mio stesso cuore. Ora che hai ricevuto il perdono, lo puoi anche donare.
  
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore>> (Gv 21,15-17).
E’ passata più di una settimana da quell’intima Pentecoste del cenacolo, quel soffio di Gesù. Hanno ritrovato Tommaso e anche a lui è apparso il Signore. Insieme sono andati a pescare e tutta la notte non è servita a nulla, ma al mattino Gesù dalla riva ha detto loro di gettare la rete a destra della barca e hanno pescato centocinquantatré grossi pesci. Pietro si è tuffato nel lago, e a riva ha trovato Gesù e la colazione già pronta. Ora, con il lavoro andato bene e il corpo rifocillato, possono parlare di cose importanti. Gesù offre a Pietro la possibilità di una riabilitazione pubblica.
Tre volte Pietro aveva rinnegato Gesù in quella notte dei tradimenti e delle fughe.
Ora Gesù lo aiuta a riparare ciò che ha guastato, a restituire ciò che ha tolto. Parole d’amore: <<Ti voglio bene>>, contro parole di tradimento: <<Non lo conosco>>. Tre per tre.
Gesù lo sa che Pietro gli vuole bene, ma ha piacere che glielo dica: <<Ti amo>>. A Pietro fa bene poter dire: <<Tu lo sai che ti voglio bene…>> Tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene.
Anche a noi fa bene ripetere a lui: Tu sai che ti amo, così siamo più sicuri nella sua conoscenza sicura. Si rinsalda in questo modo, proclamandolo, l’amore nostro debole e incerto.
Il peccato è tradimento di Gesù e mancanza d’amore; la riparazione del peccato è un atto d’amore con proposito di fedeltà: Pasci le mie pecore. Riparazione con le opere, amore dimostrato con i fatti. La colpa è già stata perdonata a Pietro, ora deve completare la penitenza. Tu stesso, Pietro, eri fuggito per paura, ora invece toglierai la paura ai tuoi fratelli, aiuterai tutti a seguirmi e ad essermi fedeli. Sarai il loro punto di riferimento, il loro sostegno.
Gesù gradisce la dichiarazione d’amore ma suggerisce la manifestazione inconfondibile, la conseguenza inevitabile: l’amore nei fatti, e amore con le opere che sono conseguenza della donazione: Pasci le mie pecore, così dimostri con i fatti che mi ami. Amami nelle mie pecore senza pastore, senza pascolo e senza ovile. Costruisci l’ovile, offri il pascolo, sii tu il loro pastore.
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MOSTRARE ALLA GENTE COME SI AMA. Mio figlio Dominic abbracciato da Papa Francesco

Ha commosso il mondo questo abbraccio di Papa Francesco nella domenica di Pasqua, dopo la Messa, a un bambino affetto da paralisi cerebrale, cercato tra la folla in piazza San Pietro. Quel bambino si chiama Dominic. E suo padre, Paul Gondreau, che è docente di teologia, statunitense, il giorno dopo ha proposto una riflessione sull’abbraccio del Papa a suo figlio pubblicata sul sito Catholic Moral Theology, dal titolo: Se mio figlio mostra come si ama. Mi hanno inviato una traduzione del suo intervento che pubblico di seguito.

«Piccoli gesti con grande amore», raccontano che dicesse Madre Teresa. Ieri Papa Francesco ha concesso una benedizione pasquale straordinaria alla mia famiglia compiendo uno di questi gesti abbracciando mio figlio Dominic, che ha una paralisi cerebrale. L’abbraccio è arrivato quando, mentre percorreva la Piazza con la papamobile dopo la Messa, in mezzo a 250 mila persone, ha visto mio figlio. Questo momento di tenerezza, l’incontro di un moderno Francesco con un moderno Domenico (come molti sanno, la tradizione riferisce che san Francesco e san Domenico ebbero la gioia di uno storico incontro), ha commosso non solo la mia famiglia (eravamo tutti in lacrime), quelli che ci erano vicini (molti dei quali piangevano con noi), le migliaia di persone che stavano guardando  sui maxischermi sulla Piazza, ma il mondo intero.
Le immagini di questo abbraccio si sono diffuse con la rapidità di un virus:
il pomeriggio di Pasqua erano già la foto d’apertura del Drudge Reportcon la didascalia «Trasformate l’odio in amore» (una parafrasi del messaggo Urbi et Orbi di Papa Francesco che ha pronunciato poco dopo) e adesso mentre scrivo la foto è ancora lì sul Drudge Report. Fox News, NBC Nightly News, ABC Nightly News, e la CNN hanno mostrato tutti quella sequenza. E l’ho trovata in prima pagina anche su Le Figaro, sul New York Post, sul Wall Street Journal, sul Philadelphia Inquirer, solo per citare alcuni giornali.
Tante volte è difficile provare a spiegare alle persone che non hanno figli diversamente abili che razza di sacrifici nascosti siano richiesti a ciascuno di noi ogni giorno. Riguardo a Dominic, penso che lui ha già condiviso la Croce di Cristo molto più di quanto io abbia fatto finora durante tutta la mia vita, anche se lo moltiplicassi per mille. Che senso ha tutto questo, mi chiedo? Per di più tendo spesso a vedere la mia relazione con lui da una parte sola. Sì, lui soffre più di me, ma sono sempre io a doverlo aiutare. E’ il modo in cui la nostra cultura tende a guardare i disabili: come persone deboli, bisognose, che dipendono così tanto dagli altri e possono contribuire poco – se non niente – alla vita delle persone che stanno intorno a loro.
L’abbraccio di Papa Francesco a mio figlio ha ribaltato completamente questa logica e, in una maniera piccola ma molto potente, ha mostrato ancora una volta come la sapienza della Croce confonda la sapienza degli uomini.
Perché il mondo intero si è commosso così tanto per le immagini di questo abbraccio? Una donna in Piazza, commossa fino alle lacrime dall’abbraccio, forse ha dato la risposta migliore a questa domanda quando, poco dopo l’abbraccio del Papa, ha detto rivolgendosi a mia moglie: «Lo sa? Suo figlio è qui per mostrare alla gente come si ama». Mostrare alla gente come si ama. Questa osservazione ha colpito mia moglie: è stata come una conferma venuta dal Cielo di ciò che lei da tempo intuiva: che la vocazione speciale di Dominic, nel mondo, sia portare la gente ad amare, far vedere alla gente come si ama. Noi esseri umani siamo fatti per amare, ma abbiamo bisogno di esempi che ci indichino come farlo.
Ma come fa una persona disabile a mostrarci come si fa ad amare in un modo che solo una persona disabile è in grado di fare? Perché la Croce di Cristo è dolce ed è di un ordine più alto. La risurrezione di Cristo dalla Croce proclama che l’amore che egli ci offre – e l’amore che noi, a nostra volta, mostriamo agli altri – è il vero motivo per cui lui ha preso su di sé la sua Croce. I nostri cuori di pietra sono trasformati in un cuore simile a quello di Cristo, e quindi resi capaci di trasformare l’odio in amore, solo attraverso la Croce. E nessuno condivide l’esperienza della Croce in maniera più intima delle persone disabili. Per questo diventano i nostri modelli e la nostra ispirazione. Sì, io dò tanto a mio figlio Dominic. Ma lui mi dà di più, molto di più. Io lo aiuto ad alzarsi e a camminare, ma lui mi mostra come si ama. Io lo nutro, ma lui mi mostra come si ama. Io lo porto a fare fisioterapia, ma lui mi mostra come si ama. Io tendo i suoi muscoli e gioco con lui, ma lui mi mostra come si ama. Io lo sistemo e lo tolgo dalla sua sedia, lo porto in giro dappertutto, ma lui mi mostra come si ama. Io perdo il mio tempo, così tanto tempo, per lui, ma lui mi mostra come si ama.
Questa lezione, lo ripeto, confonde la sapienza del mondo. Mi confonde quando io, suo padre, così spesso non riesco a vedere la sua condizione per quello che è. La lezione che questo mio figlio disabile offre, è come una testimonianza potente della dignità e del valore infinito di ogni persona, specialmente di quelle che il mondo considera più deboli e più «inutili». Attraverso la loro condivisione della «follia» della Croce, i disabili diventano i più forti e i più produttivi tra di noi.
Un’ultima cosa. L’abbraccio di Papa Francesco a mio figlio Dominic indica che non dobbiamo rinchiudere la vicinanza ai poveri espressa dal nuovo Pontefice – e che già si profila come una pietra angolare del suo Pontificato – in categorie facili, puramente materiali (e solamente politiche). Il suo abbraccio pasquale a mio figlio si erge come una testimonianza del tipo di «povertà» che egli vuole adottare, la povertà che ha sottolineato nella frase iniziale del suo messaggio Urbi et Orbi: “Vorrei che l’annuncio della risurrezione di Cristo raggiungesse ogni casa e ogni famiglia, specialmente là dove la sofferenza è più grande…”. Genitori dei figli disabili, coraggio! Troviamo ristoro e incoraggiamento in queste parole semplici ma tanto profonde.

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EMMAUS. GESU’ RISORTO E L’EUCARISTIA

L’episodio di Emmaus, Cristo risorto che si avvicina a due dei suoi e fa la strada con loro spiegando le Scritture su di lui, è inesauribile, sempre attuale e sempre nuovo. Lo meditai nel mio libro sull’Eucaristia: HO DESIDERATO ARDENTEMENTE. INCONTRARE CRSTO NELL’EUCARISTIA mettendone in evidenza alcuni aspetti eucristici applicabili alla nostra vita quotidiana di cristiani. Riporto i miei commenti pubblicati, per aiutare ad avvicinare Cristo Risorto nel tempo di Pasqua e sempre, attraverso quelle parole del Vangelo. 

Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. (Lc 24, 13-14) 

In quel giorno del Signore, giorno della luce che non tramonterà più, giorno della risurrezione che non morirà mai, giorno della vita che ha sconfitto la morte, che ha riempito di sé il sepolcro tutto nuovo e ha fatto saltare via la pietra immensa dei secoli, in quel giorno, proprio in quel giorno, due di loro scappano via. Vanno lontano, in un villaggio che dista sette miglia di anni luce da  Gerusalemme, che è la città santa, il luogo del tempio, il posto del sacrificio, l’altare del calvario. E conversando tra loro – non sempre la conversazione tra amici è costruttiva – si confermano l’un l’altro nel proposito di fuggire lontano. Non credono che il Calvario sia stato il luogo del sacrificio offerto a Dio, per la nuova ed eterna alleanza con il suo popolo. Clèopa e l’amico non sanno di rappresentare il primo esempio di gita domenicale di fuga dalla Messa. Riposiamoci ad Emmaus, lontani dai clamori della settimana santa, speriamo che la distanza riesca a farci dimenticare quel sacrificio, di cui non comprendiamo il senso.
  
Mentre discutevano e discorrevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. (Lc 24, 15-16)
I due in preda alla loro crisi di fede scappano via dalla Messa e Gesù li insegue e porta a loro una singolarissima  Messa domenicale di Pasqua, itinerante e a domicilio. Gesù fa il suo ingresso, discreto, in quella piccola comunità, ma non lo riconoscono, solo la fede permette di vedere Gesù dopo la sua risurrezione. Ma la fragilità della fede non è un motivo sufficiente per disertare la Eucaristia, che é medicina. A un adolescente che viveva un momento di difficoltà nella fede il saggio parroco consigliò: non abbandonare la Messa, ora ne hai più bisogno che mai. E’ come se tu, assetato, ti allontanassi dalla fonte dell’acqua limpida e fresca. Quel  giovane gli diede retta. Anni dopo, nella stessa chiesa dove aveva accolto quel consiglio  celebrava la sua prima Messa, l’anziano parroco accanto.
  
Ed egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?” Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?” Domandò: “Che cosa?” Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”. (Lc 24 17-24)
Loro non sanno che stanno partecipando ad una prova simbolica di Messa pasquale. Gesù li accompagna a mettere in evidenza il loro problema, perché possano andare alla Messa ad offrire tutta la loro vita. A risolvere con la forza di Dio il loro problema.  Li aiuta con le domande opportune a guardarsi dentro che é preludio del pentimento, necessario per partecipare degnamente all’Eucaristia. Che sono questi discorsi? Che sono questi pensieri che vi allontanano da
Gerusalemme? Come sono le vostro opere e le vostre omissioni?
Ed egli disse loro: ”Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”.  E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. (Lc 24, 25-27)
La parola di Gesù è chiarezza e luce che colpisce e scuote. In questa singolare Messa Pasquale la liturgia della parola non ha bisogno di lettori, è pronunciata da Lui senza intermediari. E copre una buona parte delle sette miglia percorse a
piedi. E’ un percorso nell’antico testamento, modello per le veglie pasquali del futuro. Anche il Vangelo  è in presa diretta: dalle labbra di Gesù, che poi pronuncia un’omelia come dovrebbero essere tutte le omelie. Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze? E’ tema essenziale e quanto è difficile, anche oggi comprenderlo. Anche noi siamo stolti e duri di cuore. Cominciamo col fidarci di Gesù e della sua parola, anche se non capiamo. Ascoltiamo, deponiamo le critiche e la paura di soffrire, chiediamo luce allo Spirito santo. Scopriamo che la logica dell’amore richiama il dolore. Che il grano di frumento se non muore non dà frutto. Che la madre se non soffre
non dà la vita. Che occorre perdere la  propria vita per accogliere la vita nuova di Cristo in noi. Era necessario che il Cristo si lasciasse mettere in croce dal nostro peccato  per vincerlo per sempre con l’amore. Era necessario che si lasciasse vincere dalla morte per vincerla per sempre con la risurrezione. Per la nostra salvezza, per sconfiggere il peccato, il demonio e la morte, ultima nemica. Per guadagnare la risurrezione del nostro corpo, per sempre, alla
fine dei tempi. Era necessaria. Se non capiamo, almeno crediamo. Se non crediamo alla necessità del
mistero pasquale di Cristo, come potremo credere alla necessità della Messa che lo rinnova e lo applica a noi?
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro. (Lc 24, 28-29)

Ha spiegato loro il significato divino della sofferenza di Gesù Nazareno, il Cristo. Li ha riconciliati con la sofferenza e quindi li ha riconciliati con la loro stessa vita. Clèopa e l’amico istintivamente si stanno per aggrappare a Lui. Pensano già in cuor loro che quel viandante ha qualcosa di singolare. Forse, perduto Gesù, Dio ha inviato sulla loro strada un altro maestro, per non lasciarli soli…Gesù non obbliga nessuno ad accettare la sua presenza, le sue parole, il suo sacrificio, la sua eucaristia. Vado più avanti, buona fortuna! Ma no, non ti conviene, si fa tardi, viene umido, col buio non si sa mai, le strade diventano insicure, anche Gesù citava quel proverbio che dice che si cammina di giorno, non di notte. Ti offriamo la cena, e un buon letto per riposare. Conosciamo il posto, ti troverai bene. Gesù accetta, si lascia vincere dall’insistenza. Gli brucia il cuore ma vuole che glielo diciamo: resta, vieni, continuiamo a parlare.
Ecco, così dovrebbe essere la nostra Messa, come un’insistenza: vieni, Signore Gesù, resta con noi, abbiamo bisogno di te. Il problema è rovesciato, non perché sono obbligato, perché  devo andare, perché mi hanno insegnato
che guai se manco, perché c’è un precetto da compiere. Ma perché abbiamo bisogno di te, si fa notte nella nostra vita, il cuore arde se parli tu. La Chiesa ce lo ricorda: abbiamo bisogno di te. In un’isola sperduta nel Pacifico, abitata da aborigeni dell’Oceania, l’ultimo missionario era morto molti decenni prima. Non avevano più potuto da allora assistere alla Messa, non avevano più avuto l’eucaristia. Allora si radunavano la domenica ed esponevano al culto la patena sulla quale era stato deposto il corpo e il sangue, l’anima umana e la divinità di nostro Signore Gesù Cristo nascosto dalla
qualità, peso, colore, sapore del pane. Che libertà la loro! Non erano tenuti, ma sentivano il desiderio autentico di Gesù: vieni con noi, resta con noi, Signore Gesù! E Gesù rimane.
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. (Lc 24, 30-31)
Il cuore era pronto, preparato dalla verità conosciuta, dal calore della parola di Dio e dalla dedizione generosa del Figlio di Dio, andato in  cerca di quelle pecore smarrite. Riscaldato dalla sua attenzione, dalla sua sicurezza, dalla sua forza. Dal suo fascino, dalla sua grazia. Dopo la tavola del cenacolo, l’altare del sacrificio è stata la croce; ora
torna ad essere la tavola. Tavola di Emmaus, odore di locanda. Là nel luogo quotidiano dell’ordinario ritrovarsi per il nutrimento di cui abbiamo bisogno essenziale per vivere. Nel luogo dove abitualmente, nella normalità dei giorni, si consuma il nostro più semplice comunicare e comunicarci in famiglia, tra gli amici. Così, così, ci dice Gesù, è la mia Eucaristia, essenziale per vivere da cristiani, da santi. Essenziale per la vita cristiana come il cibo quotidiano per vivere. Come la famiglia per amare. Così è la mia eucaristia, comunione degli amori. A Emmaus c’è la tavola. Dopo il lungo parlare c’è la comunione del pensiero; stanno insieme, sostano insieme. C’è la preghiera di benedizione, e c’è pure
quello spezzare misterioso, quello spezzare decisivo. E il dare a loro. Spezzare e dare. Spezzare e dare. Spezzare e dare: Gesù! Sei proprio tu! Riceviamo un solo pane, un unico pane, un unico Cristo, e diventiamo un unico
Cristo, un solo corpo, una sola Chiesa, un’unità. Quel pane spezzato e dato, è segno di tutto ciò. Quel pane spezzato, segno della morte di Gesù, quando fu divisa la sua anima dal suo corpo, quando fu tolta – spezzata –la vita da quelle membra. Solo così, ci vuole dire Gesù, poteva questa vita essere ripresa in modo nuovo e definitivo, ed esserci donata: attraverso il pane spezzato, il pane donato. Non è un caso che Gesù abbia voluto aprire i loro occhi con quel gesto.
Gesù ribadisce con loro l’insegnamento sull’eucaristia. Costruisce una vivente parabola eucaristica. Ora i vostri occhi mi riconoscono. Nel gesto già noto dello spezzare il pane. Ora posso scomparire dalla vostra vista, per abituarvi a ritrovarmi nel pane che è il mio corpo. Nel sacrificio della nuova ed eterna alleanza che resterà con voi ogni giorno, fino alla fine del mondo.

Ed essi si dissero l’un l’altro: ”Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” E partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”: Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!” (Lc 24, 32-36)
Dopo la comunione con Gesù nascosto nell’eucaristia viene il momento del raccoglimento, del ringraziamento. Grazie Signore di essere venuto, di avermi ripescato sulla strada del mio sviarmi. Grazie per avermi parlato lungo la vita, grazie per la tua parola ascoltata anche durante la celebrazione dell’eucaristia, grazie per le tue spiegazioni che fanno ardere
il cuore. Grazie per essere entrato in me, nel mio corpo, nella mia anima. La tua presenza nell’anima mi riempie di energie, non ho più paura della notte. Mi sento rafforzato nella fede. Andrò dai miei fratelli per confermare anche loro nella fede. Il raccontarci tra noi gli avvenimenti sulla strada del ritorno da Emmaus, è molto diverso dai discorsi dell’andata. Ci raccontiamo come Gesù è venuto, ha parlato, ci ha spiegato, ci ha scosso, ci ha confortato, ci ha nutrito con il suo corpo, ci ha inviato dai suoi fratelli. E l’incontro con loro sarà in realtà uno scambio di doni.
Noi daremo e loro ci daranno. E nell’intimità dell’agape fraterna torneremo a  vedere Gesù, a sentire Gesù che ci
dirà  “Pace a voi!” La pace che sentite, che vivete è proprio la mia pace, quella che il mondo non può dare. Pace a te, per ora e sempre, per tutta l’eternità. Sentiremo,  vedremo Gesù…E’ proprio lui!
  

Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma, non ha carne e ossa come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?” Gli offrirono una porzione di pesce arrostito, egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”:
Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finchè non siate rivestiti di potenza dall’alto”.
Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio. (Lc 24, 37-53
Perché vi turbate  nel contemplare quello che sembra sempre pane dopo le parole che il sacerdote dice in memoria di me: questo è il mio corpo! Nell’adorare il contenuto di quel calice, dopo che il  sacerdote ha detto: questo è il mio
sangue! Perché sorgono dubbi nel vostro cuore nell’avvicinarvi a  ricevere quel pane e quel vino
transustanziati? L’ultima volta che sono apparso a voi, non vi dissi di guardare mani e piedi, e di toccarmi
poiché non credevate ed eravate spaventati per la storia del fantasma, o pensavate
che fosse troppo bello per essere vero, e vi chiesi se avevate qualcosa da mangiare e  avete tirato fuori la porzione di pesce arrosto messa da parte per Tommaso? E come la mangiai, davanti ai vostri occhi pieni di stupore?
Ricordate? Con il cibo vi passò la paura. Il cibo fu prova del mio essere uomo vero,
risorto e vivo. Ecco, con quelle prove si rafforzò la vostra fede. Ora perché vi dovreste meravigliare che io stesso mi faccia cibo per stare sempre  con voi, per vincere le vostre paure? Oggi nascosto nell’eucaristia vi ridico le stesse cose, tranne di guardare le mani e i piedi e di darmi pesce arrosto; sono io, ora, che mi do a voi come cibo: sono proprio io! In una dimensione diversa, unica, non paragonabile con altre presenze al mondo. Per questo a volte vi sentite un po’ smarriti. Perché non potete assimilare la mia presenza eucaristica a qualcosa di conosciuto e sperimentabile. D’altra parte anche la mia risurrezione è cosa totalmente nuova, alla quale fate un po’ di fatica ad abituarvi. Lo Spirito Santo vi  aiuta a credere a me risorto, a me presente nell’Eucaristia. E tornate alle vostre case, a Gerusalemme, con grande gioia.