Settima domenica in preparazione alla festa di san Giuseppe e settimo “dolore e gioia” della sua vita
Nell’ultima delle sette domeniche in preparazione alla solennità di san Giuseppe si medita la settima coppia di dolore e gioia che si deduce dagli episodi narrati dal Vangelo: il dodicenne Gesù perduto e ritrovato poi nel tempio a Gerusalemme.
Nella preghiere del formulario antico utilizzato all’inizio di questi articoli, avrete notato anche voi che Maria è citata solo tre volte lungo tutte le descrizioni e le preghiere dei sette dolori e gioie, citata accanto a Gesù e dopo Gesù.
Io l’avrei messa accanto a Giuseppe sempre, come sta esemplarmente in questo episodio della loro vita, accanto, sostenendosi, senza accusarsi a vicenda, cosicché insieme raggiungono l’obbiettivo di ritrovare Gesù.
Come ho fatto per li altri dolori e gioie pubblico un estratto del racconto di quel dolore e di quella gioia come li ho immaginati nello scrivere il libro Giuseppe e Maria. La nostra storia d’amore.
Preghiera
O esemplare di ogni santità , glorioso San Giuseppe, smarrito senza tua colpa il fanciullo Gesù, con grande dolore lo cercasti tre giorni, finché, con grande giubilo, trovasti il tuo Gesù nel Tempio fra i Dottori.
Per questo tuo dolore e per questa tua gioia, ti supplichiamo di ottenerci che non avvenga che perdiamo Gesù per colpa grave, ma se per disgrazia lo perdessimo, ottienici che lo cerchiamo con grande dolore, finché lo ritroviamo, particolarmente nell’ora della nostra morte, per venire in Cielo, e lì, con te, in eterno cantare la sua misericordia.
TUTTI GLI ANNI A GERUSALEMME PER LA PASQUA*
Anche per me, come per Giuseppe, quel viaggio verso Gerusalemme, il viaggio dei dodici anni, fu il più intenso di intimità nei discorsi con Gesù. Poi c’erano i suoi amici, i giochi, le famiglie della carovana. La sua libertà di correre avanti a noi. Arrivati a Gerusalemme, la visita al tempio fu come gli altri anni: intensa, gioiosa, piena di preghiera. Nulla di diverso dal solito. Gesù più grande, più intraprendente, più vivace.
Venne il tempo di ripartire. La carovana si muoveva. Eravamo in tanti, varie centinaia. All’inizio Gesù era con noi. Ci apprestavamo a un lungo viaggio. Durante la giornata era abituale che le donne stessero con le donne e gli uomini con gli uomini. Gesù mi aveva buttato lì una frase: « Voglio stare con mio padre ». Ne ero felice. Giuseppe, con gli anni, aveva perso la sua ritrosia e aveva cominciato a dire a Gesù ciò che pensava, a passargli la sua esperienza di vita, la sua sapienza. La giornata di viaggio trascorse tranquilla. Non vidi Gesù, ma lo sapevo con Giuseppe o con i suoi amici, o con i nostri parenti. Fu alla sera, al radunarci per la cena, che non arrivò e Giuseppe mi disse che era convinto che stesse con me a continuare i discorsi del viaggio d’andata. Con me lo aveva visto l’ultima volta.
Cominciammo a cercarlo nei vari gruppi seduti per la cena attorno ai fuochi. Facevamo fatica a restare sereni e a non farci prendere dall’ansia. Avete visto Gesù? È con voi Gesù? Nessuno lo aveva visto durante il cammino di quel giorno. Ci guardammo negli occhi con Giuseppe, angosciati. Riuscimmo a superare insieme la tentazione di darci la colpa l’un l’altro. « È colpa mia», dicemmo quasi all’unisono e quasi allo stesso tempo ciascuno di noi lo negava per l’altro.
LA PAURA DEI RUMORI DELLA NOTTE
Dissi a Maria: «Non è vero. È accaduto perché doveva accadere. Giobbe avrebbe detto: “Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del Signore” ». «Aspetta, Giuseppe, non è ancora il momento, non sappiamo cosa sia successo, andiamo a cercarlo », mi disse Maria. «Sì, Maria, torniamo nella notte verso Gerusalemme, qui non riusciremmo a dormire. Vediamo se si è fermato lungo la strada. Siamo abituati a viaggiare di notte per proteggere la sua vita. Gli abbiamo detto che amare è dare la vita, o rischiare di perderla, metterla in gioco: ecco, lo facciamo per lui ».
Nel camminare sperimentammo la paura del silenzio, la paura dei rumori della notte, il timore dei briganti che sarebbero potuti sbucare da ogni arbusto, il tuffo al cuore per i giochi delle ombre. Ci tenevamo per mano. Ci dicevamo: dobbiamo guardare dove mettiamo i piedi, concentriamoci su un passo dopo l’altro. La luna piena di Pasqua ci aiuta. Stravolti arrivammo a Gerusalemme al mattino. La città brulicava di gente. Un giorno intero di ricerche senza esito. Sulle mura, nelle piazze, nelle botteghe, nell’Orto degli ulivi, sulla spianata del tempio, nei vicoli stretti, dove dormivano i pellegrini, anche per strada. Il dolore di quei momenti era non sapere. La mente vagava tra mille possibilità. Alcune terribili. Cose sentite, veramente accadute, potevano essere accadute a lui. Da quella città Erode aveva scatenato la ricerca sanguinosa di nostro figlio. In fondo era passata solo una decina d’anni. Forse qualcuno lo aveva visto, lo aveva sentito parlare, aveva sospettato, si era ricordato, aveva fatto la spia, aveva trovato gente di quell’epoca. Aveva sobillato il sospetto nel re.
Maria era più serena di me, aveva una percezione materna che lui fosse vivo e sano, e vicino. Pregavamo insieme questa volta con i salmi dell’angoscia:
Signore, Dio della mia salvezza,
davanti a te grido giorno e notte.
Giunga fino a te la mia preghiera (Sal 88,2-3).
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Sal 22,2)
Nel giorno dell’angoscia alzo a te il mio grido perché tu mi rispondi (Sal 86,7).
Dio, non startene muto,
non restare in silenzio e inerte, o Dio.
Vedi: i tuoi nemici sono in tumulto
e quelli che ti odiano alzano la testa (Sal 83,2-3).
La mia voce verso Dio: io grido aiuto!
La mia voce verso Dio, perché mi ascolti (Sal 77,2).
E molti altri. Con Maria ci meravigliavamo della quantità di salmi che esprimevano il nostro stato d’animo.
Passammo un’altra notte di fortuna con tutti i nostri abiti addosso in mezzo alla marea di pellegrini. Nell’addormentarci vicini per scaldarci e proteggerci ci sussurravamo: «Ti ricordi la notte di Betlemme? Comparve la grotta. Arrivarono gli angeli e i pastori. Speriamo che sia così anche in questa notte, seconda notte dopo il secondo giorno senza di lui, e senza sapere nulla di lui. Cosa gli sarà successo? Un ragazzo d’oro, un tesoro infinito come lui! Che siano giunti i giorni, speriamo di no, della sua offerta al Padre per noi? Che abbia voluto allontanarsi da noi per non farci soffrire? ».
COME IL MAESTRO DEI MAESTRI E TUTTI INTORNO A LUI
Ci svegliammo infreddoliti e rattrappiti. La giornata luminosa e Gerusalemme scintillante nella sua bellezza ci diedero speranza. Rendemmo grazie a Dio per la notte e per il giorno, perché ci rendeva così uniti in quella avversità.
« Senti, Giuseppe », gli dissi, « tu e io lo sappiamo che lui viene dallo Spirito Santo e dal mio grembo. Questo significa che è figlio dell’Altissimo. Preghiamo così: tu che scruti e conosci tutte le cose, indicaci la strada per ritrovare questo tuo figlio, e poterlo nutrire, educare, proteggere fino a quando potrà compiere la sua missione ».
Lo Spirito Santo rispose subito alla nostra preghiera facendomi ricordare quelle parole dette di sfuggita: «Voglio stare con mio padre». Se non era con Giuseppe durante il viaggio, dove avrà voluto stare se non nella casa di suo Padre, nel tempio? « Già ieri lo abbiamo cercato lì!», obiettò Giuseppe. «Sì», gli dissi, « ma siamo rimasti fuori, siamo arrivati fin solo dove possono entrare le donne. Andiamo dentro. Là dove ci sono i sacerdoti. Sono sua madre e lui è mio figlio: entreremo. Non mi fermeranno. Mi farò riconoscere come colei che ha prestato servizio, la figlia di Gioacchino. Dirò loro: sto cercando mio figlio che abbiamo perduto ».
Andammo decisi. Con la determinazione di una madre a cui hanno rubato un figlio. Le forze moltiplicate. Invocammo gli angeli del Signore di proteggerci. Trovammo il modo, conoscevo bene il tempio, le vie secondarie e deserte. Mi coprii un po’ il volto e non mi fecero caso. Arrivammo in una sala dove solevano radunarsi i maestri a discutere sulle Scritture e sulla legge di Dio. Udimmo la sua voce squillante.
Osservammo meravigliati la scena. Era seduto come il maestro dei maestri e tutti intorno a lui.
Si mescolavano nel mio cuore e in quello di Giuseppe i sentimenti più diversi. La gioia di averlo ritrovato sano e salvo. La gratitudine a Dio. Poi lo stupore: non doveva forse aspettare di essere adulto? Si stava svelando come il maestro dei maestri d’Israele, ed era ancora un dodicenne. Giuseppe e io avevamo speso ore a spiegargli e insegnargli cose che sapeva molto meglio di noi! Perché non ci aveva detto nulla? E com’era possibile, dopo tutti i discorsi sull’amore, che ci avesse fatto soffrire così? Gesù li ascoltava e li interrogava. I maestri erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte (Lc 2,46.47).
Avevamo la segreta soddisfazione che qualcuno al di fuori di noi due, e così autorevole, avesse potuto conoscere e ammirare un po’ del mistero ineffabile di nostro figlio. Anche noi eravamo un po’ imbambolati, tra la stanchezza della notte, le emozioni, lo stomaco chiuso per la tensione. Giuseppe era preso dalla paura di quei sacerdoti: adesso lo osannano, ma poi? Proprio qui Erode consultò i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo per sapere dalle profezie in quale luogo sarebbe nato il re dei Giudei e ingannò i Magi per poter arrivare a uccidere Gesù. Alcuni di loro potrebbero ricordarsi.
Giuseppe non si fidava della loro ammirazione. “Se Dio, per mandare suo figlio a salvarci, non ha consultato i sacerdoti del tempio, un motivo ci sarà”, pensava. E si confidava con me: « Andiamocene al più presto. Mescoliamoci alla folla ». Gli diedi retta, ripresi le forze e la potenza della madre ferita e mi feci avanti incurante dei dottori del tempio, anzi fiera di essere madre di quel prodigio. « Se voi ascoltate lui con tanta devozione, adesso lui ascolta me: Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo [Lc 2,48]». Nelle mie parole misi Giuseppe prima di me, il padre di famiglia, che mi aveva sostenuto e guidato in quei tre giorni. Non mi accorgevo che quella scena e quel dialogo erano un’immagine terrena della Trinità. Gesù aveva capito che eravamo molto uniti e infatti rispose a entrambi: « Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? » (Lc 2,49). Non comprendemmo la sua risposta.
Pensavamo: le cose del Padre tuo non sono anche a Nazaret, e nel lavoro di Giuseppe? Ma tacemmo. Capivamo che lui era troppo in alto rispetto a noi. Poi, mescolato con la sua origine divina, c’era anche un pizzico di adolescenza umana. Forse i nostri discorsi dei giorni precedenti erano stati troppo precoci? Meglio aspettare. Ne riparleremo con lui in un momento propizio. Dopo. A casa.
E in effetti funzionò. Tornò con noi. Era docile e amorevolmente disponibile. Cresceva ancora. E io custodivo tutte queste cose nel mio cuore a maturare. Con Giuseppe ci dicevamo: quando noi siamo uniti, anche i momenti difficili di nostro figlio rientrano, vengono assorbiti dal nostro amore.
Qualche giorno dopo, a Nazaret, in un momento di intimità, ripensando a quell’avventura, scherzavo su quello che ci era successo a Gerusalemme, e dicevo a Giuseppe: « Se ti va male con il lavoro di carpentiere, potrai sempre proporti come investigatore delle guardie del re! ». E si scioglieva nel sorriso la nostra stanchezza.
*Giuseppe e Maria. La nostra storia d’amore, cap. XIV, pp. 137-152.