Il 5 luglio scorso il Papa Francesco ha approvato il decreto sul miracolo attribuito all’intercessione ad Alvaro del Portillo, del quale precedentemente erano state dichiarate le virtù eroiche. Questo significa che verrà beatificato, cioè proposto ai fedeli come modello di sequela di Cristo, di identificazione con Lui e come intercessore. Primo successore di San Josemarìa alla guida dell’Opus Dei, ho avuto modo di conoscerlo negli incontri con san Josemarìa a cui ho partecipato, a Roma, negli anni 1973-1975, nei quali stava molto appartato per non togliere attenzione alle parole del Fondatore, e dopo la morte del Fondatore negli incontri familiari e formativi che gli piaceva tenere, seguendo il suo esempio, con i ragazzi che andavano a Roma per trascorrervi la settimana santa, vivere la Pasqua, stare con il Papa, avere un’esperienza dell’universalità della Chiesa. Ancor più da vicino l’ho conosciuto negli anni di studio della teologia a Roma, nei quali veniva a trovarci spesso. Furono gli anni appassionanti della gioventù di Giovanni Paolo II, ma anche drammatici: per esempio vivemmo in loco lo choc dell’attentato al Papa, il 13 maggio dell’1981. Ci chiedeva di pregare molto per la sua vita e poi per la sua guarigione, e ci raccontava delle visite che riusciva a fare al Gemelli, e dei regali che gli faceva, fra cui cassette con canzoni di amore umano bello che avrebbero potuto aiutarlo a pregare in quei momenti di grande prova e stanchezza. Tra quelle canzoni, c’era per esempio la canzone messicana La Morenita, che a san Josemarìa piaceva rivolgere alla Madonna di Guadalupe.
Per tre volte siamo stati insieme a lui con i miei genitori, sorelle e fratelli, negli ultimi due c’erano anche moglie e fidanzata dei miei due fratelli. Mi piacerebbe informalmente raccontare altri piccoli ricordi di questo tipo…per ora offro un suo scritto e un paio di link utili. Lo scritto é un suo intervento ad un convegno su Giovanni Paolo II che il settimanale Il Sabato pubblicò il 7 dicembre del 1984. Attualmente è pubblicato in un libro di suoi scritti, della Libreria Editrice Vaticana, dal titolo Rendere amabile la verità (Roma, 1995). Allora mi dedicavo alla tesi dottorale a Pamplona, ero sacerdote da pochi mesi. Mi arrivò notizia di quell’articolo attraverso una fotocopia inviatami per posta da una delle mie sorelle. Molte volte l’ho utilizzata citandola nelle mie meditazioni, quando toccavo l’aspetto della santificazione del lavoro. Era l’epoca degli strumenti cartacei. Adesso quella fotocopia riposa in un mio schedario, piegata in quattro. Il testo è espressivo del modo piano, ragionevole e caldo, illuminante che aveva don Alvaro, come viene chiamato da molti, di spiegare aspetti centrali della fede e della vita cristiana, illuminati dal peculiare carisma dello spirito ricevuto da san Josemarìa. Il titolo mette in evidenza il lavoro, ma leggendolo si vede che don Alvaro pensa a tutta l’esistenza che possa diventare preghiera. Prende le mosse dall’esempio di Giovanni Paolo II con cui aveva molta consuetudine. Lo stesso 5 luglio è stato approvato anche il miracolo di Giovanni Paolo II, per la canonizzazione. E anche la notizia della canonizzazione di Giovanni XXIII, che lo aveva conosciuto e nominato con incarichi importanti in varie commissioni del Concilio Vaticano II. I santi si conoscono sulla terra, si vogliono bene, si aiutano, e in cielo si occupano incessantemente di noi. Buona lettura.
per chi desidera approfondire:
-video di due minuti e mezzo sulla sua vita: http://www.opusdei.it/art.php?p=49806
-intervista a mons Capucci postulatore della Causa di Beatificazione: http://www.opusdei.it/art.php?p=54591
Il lavoro si trasformi in orazione[1]
Era il 1972. L’allora arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, era impegnato nella redazione delle risposte ad un’intervista sul sacerdozio. Ho la gioia di conservare personalmente l’originale di quel manoscritto. Il testo è in lingua polacca, ma, al bordo superiore di ogni pagina, appaiono sempre alcune brevi e significative parole in latino: totus tuus, et omnia mea tua sunt, Mater Misericordiae…, oppure un versetto della Sequentia della messa di Pentecoste: Veni, Sancte Spiritus, / et emitte caelitus / lucis tuae radium. / Veni, Pater pauperum, / Veni, Dator munerum…, eccetera, e così, su ogni cartella, fino alla fine del testo dell’intervista.
Giaculatorie sfuggite quasi per imperiosa necessità dalla penna, con le quali il cardinal Wojtyla chiedeva al Signore di illuminarlo nel lavoro e, al tempo stesso, si aiutava ad alimentare e ad attualizzare lo sforzo per mantenersi sempre alla presenza di Dio. Perché è così facile, soprattutto nel lavoro intellettuale, che l’anima si distragga da Lui per immergersi soltanto nella riflessione, se viene a mancare uno specifico e sano impegno ascetico.
Questo piccolo episodio della vita del Santo Padre Giovanni Paolo II mi è parso particolarmente adatto ad aprire la presente testimonianza. Più incisivamente di tante considerazioni astratte, esso richiama infatti tutti noi a ricordare un compito affascinante che è anche una precisa necessità per ogni anima cristiana: fare tutto il possibile affinché l’intera esistenza, ed in particolare il lavoro di ogni giorno, si trasformi in preghiera.
Immettendosi nel solco della più antica tradizione, il Magistero pontificio ha sempre insegnato che ogni cristiano deve diventare un’anima d’orazione. Ed affinché questo colloquio intimo con Dio possa svilupparsi non basta dedicare all’orazione un po’ di tempo alla settimana. Persino pregare tutti i giorni sarebbe ancora poco, se si tengono presenti le attese del Signore nei confronti di ciascuno di noi. Il Vangelo afferma chiaramente che bisogna «pregare sempre, senza stancarsi»[2]. Dal canto suo, san Paolo esorta: Sine intermissione orate[3], pregate incessantemente.
L’intera esistenza cristiana deve dunque diventare preghiera: un’orazione ininterrotta come il battito del cuore, giorno e notte[4]. E questo Dio lo chiede a tutti, perché tutti sono chiamati a santificarsi. Alla pienezza dell’amore il Signore chiama anche tutti quei milioni di fedeli che ha posto in mezzo al mondo, a condividere le inquietudini, le aspirazioni, i problemi del mondo nella famiglia, nella professione, nei rapporti sociali.
Ma è veramente possibile trasformare l’intera esistenza, con i suoi conflitti e le sue turbolenze, in un’autentica preghiera? Dobbiamo rispondere decisamente di sì. Altrimenti, sarebbe come ammettere di fatto che la solenne proclamazione della chiamata universale alla santità, da parte del Concilio Vaticano II[5], non è stata nulla di più che un’affermazione di principio, un ideale teorico, un’aspirazione incapace di tradursi in realtà vissuta dall’immensa maggioranza dei cristiani.
Ma la santità richiede una vita d’orazione intensa e piena, tale cioè da abbracciare la totalità dell’esistenza nei suoi singoli aspetti. Occorre allora concludere che è indispensabile riuscire a trasformare il lavoro in preghiera: il lavoro manuale o intellettuale, che costituisce il tessuto del vivere quotidiano di tanti milioni di uomini e di donne, può, con l’aiuto della Grazia, diventare per ognuno di loro l’ambito di quella conversazione con Dio che è sete di ogni anima contemplativa. Se qualcuno avesse timore di essere radicale su questo punto —il lavoro che diventa preghiera nell’impegno ascetico di tutti i comuni fedeli — costui, ripeto, di fatto negherebbe la chiamata universale alla santità. Ne dichiarerebbe impossibile la realizzazione. E, ciò che è ancora più grave, sfumerebbe a tal punto l’orizzonte teologale della vita cristiana da creare una scissione insanabile, del tutto contraria al progetto divino, fra l’essere e l’agire.
Aprendo con discrezione uno spiraglio sulla propria preghiera personale, un giorno Giovanni Paolo II ebbe a confidare che il Papa «cerca anche di unire la preghiera ai suoi obblighi, alle sue attività, al suo lavoro, e di unire il suo lavoro alla preghiera»[6]. Riprendo qui con particolare gioia queste parole del Santo Padre, perché offrono un’ulteriore ed autorevole conferma ad un insegnamento diffuso dal fondatore dell’Opus Dei fin dal 1928 e divenuto oggi consolante esperienza per tante migliaia di persone che si impegnano con semplicità a viverlo e a trasmetterlo ad altri: fra le occupazioni temporali e la vita spirituale, fra il lavoro e la preghiera non ci può essere solo un «armistizio», più o meno riuscito; ci dev’essere unione piena, fusione senza residui. Il lavoro nutre l’orazione e l’orazione imbeve di sé il lavoro. Fino a tal segno che il lavoro in se stesso, in quanto servizio reso all’uomo e alla società, e dunque con le più alte esigenze di professionalità che lo contraddistinguono, diviene preghiera grata a Dio: atto nel quale l’uomo tutto intero, nel proprio essere e nel proprio agire, dona se stesso a Dio. Ricordate l’invito dell’Apostolo ai Colossesi: « Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù»[7]. Tutto, anche le realtà più prosaiche, perché nulla, salvo il peccato, può essere escluso a priori dalla possibilità di venire divinizzato e trasformato in preghiera: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio»[8].
Il fondamento teologico della possibilità di mutare in preghiera qualunque attività umana, e quindi anche il lavoro, viene illustrato dal Santo Padre Giovanni Paolo II nell’enciclica Laborem exercens laddove, nel descrivere alcuni elementi per una spiritualità del lavoro afferma: « Dato che il lavoro nella sua dimensione soggettiva è sempre un’azione personale, actus personae, ne segue che ad esso partecipa l’uomo intero, il corpo e lo spirito ( .. ). All’uomo intero è pure indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della salvezza»[9].
E l’uomo deve rispondere a Dio che lo interpella con tutto se stesso, con il proprio corpo ed il proprio spirito, con la propria attività. Questa risposta è appunto l’orazione.
Può sembrare difficile mettere in pratica un programma così alto. Senza l’aiuto divino è certamente impossibile. Ma la grazia ci innalza ben al di sopra delle nostre limitazioni. L’Apostolo detta una precisa condizione: fare ogni cosa a gloria di Dio, con assoluta purezza d’intenzione, nell’anelito di piacere al Signore in tutto.
Ma, a questo fine, ecco che si coglie immediatamente un’altra condizione da rispettare: lavorare sul serio e lavorare bene, con la massima perfezione umana possibile. Il nesso fra il lavoro e la santità si rende allora più evidente, perché appare chiaro che il lavoro può trasformarsi in preghiera soltanto in virtù di uno sforzo costante per esercitare le virtù umane e le virtù soprannaturali. Il lavoro mette in movimento l’intero organismo soprannaturale. Un testo, fra i tanti di monsignor Escrivá, descrive efficacemente questa realtà: « Il lavoro nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore. Riconosciamo Dio non solo nello spettacolo della natura, ma anche nell’esperienza del nostro lavoro, del nostro sforzo. Sapendoci posti da Dio sulla terra, amati da Lui ed eredi delle sue promesse, il lavoro diviene preghiera, rendimento di grazie»[10].
Ma, si badi, affermare che tutta la vita può e deve diventare preghiera non significa certamente dimenticare che debbono esistere dei momenti da dedicare specificamente ed esclusivamente all’orazione. Queste pause di raccoglimento sono indispensabili: solo i sacramenti, infatti, assieme all’orazione mentale e alle altre pratiche di pietà, ci offrono la forza spirituale necessaria per mantenere vivo in ogni momento il dialogo con Dio. Tuttavia, tali esercizi non vanno concepiti come altrettante interruzioni del tempo dedicato al lavoro; non sono parentesi a sé stanti. Quando preghiamo, non abbandoniamo il «profano», per immergerci nel «sacro». La preghiera segna invece il momento più intenso di un atteggiamento che accompagna il cristiano in tutta la sua attività e che crea il nesso più profondo, perché più intimo, fra il lavoro svolto prima e quello al quale tornerà subito dopo. E, parallelamente, egli saprà così ricavare proprio dal lavoro materia con cui alimentare il fuoco della preghiera mentale e vocale, spunti sempre nuovi di adorazione, di gratitudine, di fiducioso abbandono in Dio.
Bisogna quindi dare il giusto valore a quello sforzo concreto senza il quale, normalmente, è così difficile destare e ravvivare nell’anima il senso della presenza di Dio durante il lavoro quotidiano. La donna di casa nello svolgimento delle faccende domestiche, il lavoratore manuale in fabbrica ed il contadino nei campi, lo studioso nella ricerca scientifica, i giovani nello studio universitario, tutti possono sperimentare la necessità di « inventare » mille modi pratici per « materializzare » questo impegno. L’aneddoto del Papa citato in apertura ce ne offre un esempio assai istruttivo.
L’unione con Cristo incoata in noi dal Battesimo e perfezionata, giorno dopo giorno, dagli altri sacramenti, tende a stabilire nella nostra anima un’identificazione crescente con il Verbo incarnato ed i misteri della sua vita. Per la maggior parte dei cristiani tale progressiva configurazione con il Signore Gesù si sviluppa necessariamente nel lavoro, perché è proprio il lavoro ciò che riempie quasi tutte le ore della loro giornata. Il lavoro appare dunque segnato da questo affascinante compito: divenire effettivamente orazione, oblazione santa e gradita a Dio[11]. Lo sforzo dell’uomo, allora, non sarà vano di fronte a Dio[12]: electi mei non laborabunt frustra[13], i miei eletti —dice il Signore— non faticheranno invano.
Mons. Alvaro del Portillo
[1] Pubblicato in «Il Sabato », 7-XII-1984.
[2] Lc 18,1
[3] 1 Ts 5,17
[4] Cf Lc 21,36; 1 Ts 3,10; 1 Tm 5,5, ecc.
[5] Cf CONCILIO VATICANO 11, Cost. dogm. Lumen gentium, e V, nn. 39-42.
[6] GIOVANNI PAOLO 11, Discorso a Parigi, durante la Veglia dell’1-6-1980.
[7] Col 3, 17
[8] 1 Cor 10, 3 l.
[9] GIOVANNI PAOLO II, Litt. enc. Laborem exercens, 14-9-1981, n. 24.
[10] JOSEMARÍA ESCRIVA DE BALAGUER, È Gesù che passa, Ares, Milano, III ed., 1982, n. 48.
[11] Cf Rm 12,1.
[12] Cf 1 Cor 15,58.
[13] Is 65,23.