Il primo ottobre 2013 altra sorpresa da papa Francesco e dalla sua grande umanità e dal grande desiderio di comunicare la luce che ha nell’anima, in ogni modo. Appare su Repubblica un’intervista che ha concesso a Scalfari. Lui che da arcivescovo di Buenos Aires non concedeva quasi mai interviste. Un esempio di dialogo, di apertura, di amicizia. Del desiderio che ha di avvicinare alla luce che ha nell’anima, le persone che gli si avvicinano, con la sola forza e luce di quella stessa luce. Senza alcuna pretesa di conversione dell’altro, con rispetto della sua libertà, ma con affetto e affabilità, e nessuna remora nel dire la verità e l’amore conosciuto. Alla fine la benedizione offerta ai familiari dell’intervistatore unita alla richiesta di preghiere, al giornalista invece la richiesta di pensare spesso al Papa. Un modo di avvicinarlo alla possibilità della preghiera rispettando la sua libertà.
Mi dice Papa Francesco: «I più gravi dei mali che affliggono il mondo in questi anni sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi. I vecchi hanno bisogno di cure e di compagnia; i giovani di lavoro e di speranza, ma non hanno né l’uno né l’altra, e il guaio è che non li cercano più. Sono stati schiacciati sul presente. Mi dica lei: si può vivere schiacciati sul presente? Senza memoria del passato e senza il desiderio di proiettarsi nel futuro costruendo un progetto, un avvenire, una famiglia? È possibile continuare così? Questo, secondo me, è il problema più urgente che la Chiesa ha di fronte a sé».
Santità, gli dico, è un problema soprattutto politico ed economico, riguarda gli Stati, i governi, i partiti, le associazioni sindacali.
«Certo, lei ha ragione, ma riguarda anche la Chiesa, anzi soprattutto la Chiesa perché questa situazione non ferisce solo i corpi ma anche le anime. La Chiesa deve sentirsi responsabile sia delle anime sia dei corpi».
Santità, Lei dice che la Chiesa deve sentirsi responsabile. Debbo dedurne che la Chiesa non è consapevole di questo problema e che Lei la incita in questa direzione?
«In larga misura quella consapevolezza c’è, ma non abbastanza. Io desidero che lo sia di più. Non è questo il solo problema che abbiamo di fronte ma è il più urgente e il più drammatico».
L’incontro con Papa Francesco è avvenuto martedì scorso nella sua residenza di Santa Marta, in una piccola stanza spoglia, un tavolo e cinque o sei sedie, un quadro alla parete. Era stato preceduto da una telefonata che non dimenticherò finché avrò vita.
Erano le due e mezza del pomeriggio. Squilla il mio telefono e la voce alquanto agitata della mia segretaria mi dice: «Ho il Papa in linea glielo passo immediatamente».
Resto allibito mentre già la voce di Sua Santità dall’altro capo del filo dice: «Buongiorno, sono Papa Francesco». Buongiorno Santità — dico io e poi — sono sconvolto non m’aspettavo mi chiamasse. «Perché sconvolto? Lei mi ha scritto una lettera chiedendo di conoscermi di persona. Io avevo lo stesso desiderio e quindi son qui per fissare l’appuntamento. Vediamo la mia agenda: mercoledì non posso, lunedì neppure, le andrebbe bene martedì?».
Rispondo: va benissimo.
«L’orario è un po’ scomodo, le 15, le va bene? Altrimenti cambiamo giorno». Santità, va benissimo anche l’orario. «Allora siamo d’accordo: martedì 24 alle 15. A Santa Marta. Deve entrare dalla porta del Sant’Uffizio».
Non so come chiudere questa telefonata e mi lascio andare dicendogli: posso abbracciarla per telefono? «Certamente, l’abbraccio anch’io. Poi lo faremo di persona, arrivederci».
Ora son qui. Il Papa entra e mi dà la mano, ci sediamo. Il Papa sorride e mi dice: «Qualcuno dei miei collaboratori che la conosce mi ha detto che lei tenterà di convertirmi».
È una battuta gli rispondo. Anche i miei amici pensano che sia Lei a volermi convertire.
Ancora sorride e risponde: «Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi, ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda. A me capita che dopo un incontro ho voglia di farne un altro perché nascono nuove idee e si scoprono nuovi bisogni. Questo è importante: conoscersi, ascoltarsi, ampliare la cerchia dei pensieri. Il mondo è percorso da strade che riavvicinano e allontanano, ma l’importante è che portino verso il Bene».
Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?
«Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene».
Lei, Santità, l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa.
«E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo».
La Chiesa lo sta facendo?
«Sì, le nostre missioni hanno questo scopo: individuare i bisogni materiali e immateriali delle persone e cercare di soddisfarli come possiamo. Lei sa cos’è l’“agape”?».
Sì, lo so.
«È l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune».
Ama il prossimo come te stesso.
«Esattamente, è così».
Gesù nella sua predicazione disse che l’agape, l’amore per gli altri, è il solo modo di amare Dio. Mi corregga se sbaglio.
«Non sbaglia. Il Figlio di Dio si è incarnato per infondere nell’anima degli uomini il sentimento della fratellanza. Tutti fratelli e tutti figli di Dio. Abba, come lui chiamava il Padre. Io vi traccio la via, diceva. Seguite me e troverete il Padre e sarete tutti suoi figli e lui si compiacerà in voi. L’agape, l’amore di ciascuno di noi verso tutti gli altri, dai più vicini fino ai più lontani, è appunto il solo modo che Gesù ci ha indicato per trovare la via della salvezza e delle Beatitudini».
Tuttavia l’esortazione di Gesù, l’abbiamo ricordato prima, è che l’amore per il prossimo sia eguale a quello che abbiamo per noi stessi. Quindi quello che molti chiamano narcisismo è riconosciuto come valido, positivo, nella stessa misura dell’altro. Abbiamo discusso a lungo su questo aspetto.
«A me — diceva il Papa — la parola narcisismo non piace, indica un amore smodato verso se stessi e questo non va bene, può produrre danni gravi non solo all’anima di chi ne è affetto ma anche nel rapporto con gli altri, con la società in cui vive. Il vero guaio è che i più colpiti da questo che in realtà è una sorta di disturbo mentale sono persone che hanno molto potere. Spesso i Capi sono narcisi».
Anche molti Capi della Chiesa lo sono stati.
«Sa come la penso su questo punto? I Capi della Chiesa spesso sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani. La corte è la lebbra del papato».
La lebbra del papato, ha detto esattamente così. Ma qual è la corte? Allude forse alla Curia? ho chiesto.
«No, in Curia ci sono talvolta dei cortigiani, ma la Curia nel suo complesso è un’altra cosa. È quella che negli eserciti si chiama l’intendenza, gestisce i servizi che servono alla Santa Sede. Però ha un difetto: è Vaticano-centrica. Vede e cura gli interessi del Vaticano, che sono ancora, in gran parte, interessi temporali. Questa visione Vaticano-centrica trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione e farò di tutto per cambiarla. La Chiesa è o deve tornare ad essere una comunità del popolo di Dio e i presbiteri, i parroci, i Vescovi con cura d’anime, sono al servizio del popolo di Dio. La Chiesa è questo, una parola non a caso diversa dalla Santa Sede che ha una sua funzione importante ma è al servizio della Chiesa. Io non avrei potuto avere la piena fede in Dio e nel suo Figlio se non mi fossi formato nella Chiesa e ho avuto la fortuna di trovarmi, in Argentina, in una comunità senza la quale non avrei preso coscienza di me e della mia fede».
Lei ha sentito la sua vocazione fin da giovane?
«No, non giovanissimo. Avrei dovuto fare un altro mestiere secondo la mia famiglia, lavorare, guadagnare qualche soldo. Feci l’università. Ebbi anche una insegnante verso la quale concepii rispetto e amicizia, era una comunista fervente. Spesso mi leggeva e mi dava da leggere testi del Partito comunista. Così conobbi anche quella concezione molto materialistica. Ricordo che mi fece avere anche il comunicato dei comunisti americani in difesa dei Rosenberg che erano stati condannati a morte. La donna di cui le sto parlando fu poi arrestata, torturata e uccisa dal regime dittatoriale allora governante in Argentina».
Il comunismo la sedusse?
«Il suo materialismo non ebbe alcuna presa su di me. Ma conoscerlo attraverso una persona coraggiosa e onesta mi è stato utile, ho capito alcune cose, un aspetto del sociale, che poi ritrovai nella dottrina sociale della Chiesa».
La teologia della liberazione, che Papa Wojtyła ha scomunicato, era abbastanza presente nell’America Latina.
«Sì, molti suoi esponenti erano argentini».
Lei pensa che sia stato giusto che il Papa li combattesse?
«Certamente davano un seguito politico alla loro teologia, ma molti di loro erano credenti e con un alto concetto di umanità».
Santità, mi permette di dirle anch’io qualche cosa sulla mia formazione culturale? Sono stato educato da una madre molto cattolica. A 12 anni vinsi addirittura una gara di catechismo tra tutte le parrocchie di Roma ed ebbi un premio dal Vicariato. Mi comunicavo il primo venerdì di ogni mese, insomma praticavo la liturgia e credevo. Ma tutto cambiò quando entrai al liceo. Lessi, tra gli altri testi di filosofia che studiavamo, il Discorso sul metodo di Descartes e rimasi colpito dalla frase, ormai diventata un’icona, «Penso, dunque sono». L’io divenne così la base dell’esistenza umana, la sede autonoma del pensiero.
«Descartes tuttavia non ha mai rinnegato la fede del Dio trascendente».
È vero, ma aveva posto il fondamento d’una visione del tutto diversa e a me accadde di incamminarmi in quel percorso che poi, corroborato da altre letture, mi ha portato a tutt’altra sponda.
«Lei però, da quanto ho capito, è un non credente ma non un anticlericale. Sono due cose molto diverse».
È vero, non sono anticlericale, ma lo divento quando incontro un clericale.
Lui sorride e mi dice: «Capita anche a me, quando ho di fronte un clericale divento anticlericale di botto. Il clericalismo non dovrebbe aver niente a che vedere con il cristianesimo. San Paolo che fu il primo a parlare ai Gentili, ai pagani, ai credenti in altre religioni, fu il primo a insegnarcelo».
Posso chiederle, Santità, quali sono i santi che lei sente più vicini all’anima sua e sui quali si è formata la sua esperienza religiosa?
«San Paolo è quello che mise i cardini della nostra religione e del nostro credo. Non si può essere cristiani consapevoli senza San Paolo. Tradusse la predicazione di Cristo in una struttura dottrinaria che, sia pure con gli aggiornamenti di un’immensa quantità di pensatori, di teologi, di pastori d’anime, ha resistito e resiste dopo duemila anni. E poi Agostino, Benedetto e Tommaso e Ignazio. E naturalmente Francesco. Debbo spiegarle il perché?».
Francesco — mi sia consentito a questo punto di chiamare così il Papa perché è lui stesso a suggerirtelo per come parla, per come sorride, per le sue esclamazioni di sorpresa o di condivisione — mi guarda come per incoraggiarmi a porre anche le domande più scabrose e più imbarazzanti per chi guida la Chiesa. Sicché gli chiedo: di Paolo ha spiegato l’importanza e il ruolo che ha svolto, ma vorrei sapere quale tra quelli che ha nominato sente più vicino all’anima sua?
«Mi chiede una classifica, ma le classifiche si possono fare se si parla di sport o di cose analoghe. Potrei dirle il nome dei migliori calciatori dell’Argentina. Ma i santi…».
Si dice scherza coi fanti, conosce il proverbio?
«Appunto. Tuttavia non voglio evadere alla sua domanda perché lei non mi ha chiesto una classifica sull’importanza culturale e religiosa ma chi è più vicino alla mia anima. Allora le dico: Agostino e Francesco».
Non Ignazio, dal cui Ordine Lei proviene?
«Ignazio, per comprensibili ragioni, è quello che conosco più degli altri. Fondò il nostro Ordine. Le ricordo che da quell’Ordine proveniva anche Carlo Maria Martini, a me ed anche a lei molto caro. I gesuiti sono stati e tuttora sono il lievito — non il solo ma forse il più efficace — della cattolicità: cultura, insegnamento, testimonianza missionaria, fedeltà al Pontefice. Ma Ignazio che fondò la Compagnia, era anche un riformatore e un mistico. Soprattutto un mistico».
E pensa che i mistici sono stati importanti per la Chiesa?
«Sono stati fondamentali. Una religione senza mistici è una filosofia».
Lei ha una vocazione mistica?
«A lei che cosa le sembra?».
A me sembra di no.
«Probabilmente ha ragione. Adoro i mistici; anche Francesco per molti aspetti della sua vita lo fu ma io non credo d’avere quella vocazione e poi bisogna intendersi sul significato profondo di quella parola. Il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s’innalza fino a raggiungere la comunione con le Beatitudini. Brevi momenti che però riempiono l’intera vita».
A Lei è mai capitato?
«Raramente. Per esempio quando il Conclave mi elesse Papa. Prima dell’accettazione chiesi di potermi ritirare per qualche minuto nella stanza accanto a quella con il balcone sulla piazza. La mia testa era completamente vuota e una grande ansia mi aveva invaso. Per farla passare e rilassarmi chiusi gli occhi e scomparve ogni pensiero, anche quello di rifiutarmi ad accettare la carica come del resto la procedura liturgica consente. Chiusi gli occhi e non ebbi più alcuna ansia o emotività. A un certo punto una grande luce mi invase, durò un attimo ma a me sembrò lunghissimo. Poi la luce si dissipò io m’alzai di scatto e mi diressi nella stanza dove mi attendevano i cardinali e il tavolo su cui era l’atto di accettazione. Lo firmai, il cardinal Camerlengo lo controfirmò e poi sul balcone ci fu l’Habemus Papam».
Rimanemmo un po’ in silenzio, poi dissi: parlavamo dei santi che lei sente più vicini alla sua anima ed eravamo rimasti ad Agostino. Vuole dirmi perché lo sente molto vicino a sé?
«Anche il mio predecessore ha Agostino come punto di riferimento. Quel santo ha attraversato molte vicende nella sua vita e ha cambiato più volte la sua posizione dottrinaria. Ha anche avuto parole molto dure nei confronti degli ebrei, che non ho mai condiviso. Ha scritto molti libri e quello che mi sembra più rivelatore della sua intimità intellettuale e spirituale sono le Confessioni, contengono anche alcune manifestazioni di misticismo ma non è affatto, come invece molti sostengono, il continuatore di Paolo. Anzi, vede la Chiesa e la fede in modo profondamente diverso da Paolo, forse anche perché erano passati quattro secoli tra l’uno e l’altro».
Qual è la differenza, Santità?
«Per me è in due aspetti, sostanziali. Agostino si sente impotente di fronte all’immensità di Dio e ai compiti ai quali un cristiano e un vescovo dovrebbe adempiere. Eppure lui impotente non fu affatto, ma l’anima sua si sentiva sempre e comunque al di sotto di quanto avrebbe voluto e dovuto. E poi la grazia dispensata dal Signore come elemento fondante della fede. Della vita. Del senso della vita. Chi è non toccato dalla grazia può essere una persona senza macchia e senza paura come si dice, ma non sarà mai come una persona che la grazia ha toccato. Questa è l’intuizione di Agostino».
Lei si sente toccato dalla grazia?
«Questo non può saperlo nessuno. La grazia non fa parte della coscienza, è la quantità di luce che abbiamo nell’anima, non di sapienza né di ragione. Anche lei, a sua totale insaputa, potrebbe essere toccato dalla grazia».
Senza fede? Non credente?
«La grazia riguarda l’anima».
Io non credo all’anima.
«Non ci crede ma ce l’ha».
Santità, s’era detto che Lei non ha alcuna intenzione di convertirmi e credo che non ci riuscirebbe.
«Questo non si sa, ma comunque non ne ho alcuna intenzione».
E Francesco?
«È grandissimo perché è tutto. Uomo che vuole fare, vuole costruire, fonda un Ordine e le sue regole, è itinerante e missionario, è poeta e profeta, è mistico, ha constatato su se stesso il male e ne è uscito, ama la natura, gli animali, il filo d’erba del prato e gli uccelli che volano in cielo, ma soprattutto ama le persone, i bambini, i vecchi, le donne. È l’esempio più luminoso di quell’agape di cui parlavamo prima».
Ha ragione Santità, la descrizione è perfetta. Ma perché nessuno dei suoi predecessori ha mai scelto quel nome? E secondo me, dopo di Lei nessun altro lo sceglierà?
«Questo non lo sappiamo, non ipotechiamo il futuro. È vero, prima di me nessuno l’ha scelto. Qui affrontiamo il problema dei problemi. Vuole bere qualche cosa?».
Grazie, forse un bicchiere d’acqua.
Si alza, apre la porta e prega un collaboratore che è all’ingresso di portare due bicchieri d’acqua. Mi chiede se vorrei un caffè, rispondo di no. Arriva l’acqua. Alla fine della nostra conversazione il mio bicchiere sarà vuoto, ma il suo è rimasto pieno. Si schiarisce la gola e comincia.
«Francesco voleva un Ordine mendicante e anche itinerante. Missionari in cerca di incontrare, ascoltare, dialogare, aiutare, diffondere fede e amore. Soprattutto amore. E vagheggiava una Chiesa povera che si prendesse cura degli altri, ricevesse aiuto materiale e lo utilizzasse per sostenere gli altri, con nessuna preoccupazione di se stessa. Sono passati 800 anni da allora e i tempi sono molto cambiati, ma l’ideale d’una Chiesa missionaria e povera rimane più che valida. Questa è comunque la Chiesa che hanno predicato Gesù e i suoi discepoli».
Voi cristiani adesso siete una minoranza. Perfino in Italia, che viene definita il giardino del Papa, i cattolici praticanti sarebbero secondo alcuni sondaggi tra l’8 e il 15 per cento. I cattolici che dicono di esserlo ma di fatto lo sono assai poco sono un 20 per cento. Nel mondo esiste un miliardo di cattolici e anche più e con le altre Chiese cristiane superate il miliardo e mezzo, ma il pianeta è popolato da 6-7 miliardi di persone. Siete certamente molti, specie in Africa e nell’America Latina, ma minoranze.
«Lo siamo sempre stati ma il tema di oggi non è questo. Personalmente penso che essere una minoranza sia addirittura una forza. Dobbiamo essere un lievito di vita e di amore e il lievito è una quantità infinitamente più piccola della massa di frutti, di fiori e di alberi che da quel lievito nascono. Mi pare d’aver già detto prima che il nostro obiettivo non è il proselitismo ma l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle delusioni, della disperazione, della speranza. Dobbiamo ridare speranza ai giovani, aiutare i vecchi, aprire verso il futuro, diffondere l’amore. Poveri tra i poveri. Dobbiamo includere gli esclusi e predicare la pace. Il Vaticano II, ispirato da Papa Giovanni e da Paolo VI, decise di guardare al futuro con spirito moderno e di aprire alla cultura moderna. I padri conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco in quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare».
Anche perché — mi permetto di aggiungere — la società moderna in tutto il pianeta attraversa un momento di crisi profonda e non soltanto economica ma sociale e spirituale. Lei all’inizio di questo nostro incontro ha descritto una generazione schiacciata sul presente. Anche noi non credenti sentiamo questa sofferenza quasi antropologica. Per questo noi vogliamo dialogare con i credenti e con chi meglio li rappresenta.
«Io non so se sono il migliore che li rappresenta, ma la Provvidenza mi ha posto alla guida della Chiesa e della Diocesi di Pietro. Farò quanto sta in me per adempiere al mandato che mi è stato affidato».
Gesù, come Lei ha ricordato, ha detto: ama il tuo prossimo come te stesso. Le pare che questo sia avvenuto?
«Purtroppo no. L’egoismo è aumentato e l’amore verso gli altri diminuito».
Questo è dunque l’obiettivo che ci accomuna: almeno parificare l’intensità di questi due tipi d’amore. La sua Chiesa è pronta e attrezzata a svolgere questo compito?
«Lei cosa pensa?».
Penso che l’amore per il potere temporale sia ancora molto forte tra le mura vaticane e nella struttura istituzionale di tutta la Chiesa. Penso che l’Istituzione predomini sulla Chiesa povera e missionaria che lei vorrebbe.
«Le cose stanno infatti così e in questa materia non si fanno miracoli. Le ricordo che anche Francesco ai suoi tempi dovette a lungo negoziare con la gerarchia romana e con il Papa per far riconoscere le regole del suo Ordine. Alla fine ottenne l’approvazione ma con profondi cambiamenti e compromessi».
Lei dovrà seguire la stessa strada?
«Non sono certo Francesco d’Assisi e non ho la sua forza e la sua santità. Ma sono il vescovo di Roma e il Papa della cattolicità. Ho deciso come prima cosa di nominare un gruppo di otto cardinali che siano il mio consiglio. Non cortigiani ma persone sagge e animate dai miei stessi sentimenti. Questo è l’inizio di quella Chiesa con un’organizzazione non soltanto verticistica ma anche orizzontale. Quando il cardinal Martini ne parlava mettendo l’accento sui Concili e sui Sinodi sapeva benissimo come fosse lunga e difficile la strada da percorrere in quella direzione. Con prudenza, ma fermezza e tenacia».
E la politica?
«Perché me lo chiede? Io ho già detto che la Chiesa non si occuperà di politica».
Però proprio qualche giorno fa ha rivolto un appello ai cattolici a impegnarsi civilmente e politicamente.
«Non mi sono rivolto soltanto ai cattolici ma a tutti gli uomini di buona volontà. Ho detto che la politica è la prima delle attività civili e ha un proprio campo d’azione che non è quello della religione. Le istituzioni politiche sono laiche per definizione e operano in sfere indipendenti. Questo l’hanno detto tutti i miei predecessori, almeno da molti anni in qua, sia pure con accenti diversi. Io credo che i cattolici impegnati nella politica hanno dentro di loro i valori della religione ma una loro matura coscienza e competenza per attuarli. La Chiesa non andrà mai oltre il compito di esprimere e diffondere i suoi valori, almeno fin quando io sarò qui».
Ma non è stata sempre così la Chiesa.
«Non è quasi mai stata così. Molto spesso la Chiesa come istituzione è stata dominata dal temporalismo e molti membri e alti esponenti cattolici hanno ancora questo modo di sentire. Ma ora lasci a me di farle una domanda: lei, laico non credente in Dio, in che cosa crede? Lei è uno scrittore e un uomo di pensiero. Crederà dunque a qualcosa, avrà un valore dominante. Non mi risponda con parole come l’onestà, la ricerca, la visione del bene comune; tutti principi e valori importanti, ma non è questo che le chiedo. Le chiedo che cosa pensa dell’essenza del mondo, anzi dell’universo. Si domanderà certo, come tutti, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Se le pone anche un bambino queste domande. E lei?».
Le sono grato di questa domanda. La risposta è questa: io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti.
«E io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio. E credo in Gesù Cristo, sua incarnazione. Gesù è il mio maestro e il mio pastore, ma Dio, il Padre, Abbà, è la luce e il Creatore. Questo è il mio Essere. Le sembra che siamo molto distanti?».
Siamo distanti nei pensieri, ma simili come persone umane, animate inconsapevolmente dai nostri istinti che si trasformano in pulsioni, sentimenti, volontà, pensiero e ragione. In questo siamo simili.
«Ma quello che voi chiamate l’Essere vuole definire come lei lo pensa?».
L’Essere è un tessuto di energia. Energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità. Da quell’energia emergono le forme quando l’energia arriva al punto di esplodere. Le forme hanno le loro leggi, i loro campi magnetici, i loro elementi chimici, che si combinano casualmente, evolvono, infine si spengono ma la loro energia non si distrugge. L’uomo è probabilmente il solo animale dotato di pensiero, almeno in questo nostro pianeta e sistema solare. Ho detto è animato da istinti e desideri ma aggiungo che contiene anche dentro di sé una risonanza, un’eco, una vocazione di caos.
«Va bene. Non volevo che mi facesse un compendio della sua filosofia e mi ha detto quanto mi basta. Osservo dal canto mio che Dio è luce che illumina le tenebre anche se non le dissolve e una scintilla di quella luce divina è dentro ciascuno di noi. Nella lettera che le scrissi ricordo d’averle detto che anche la nostra specie finirà ma non finirà la luce di Dio che a quel punto invaderà tutte le anime e tutto sarà in tutti».
Sì, lo ricordo bene, disse «tutta la luce sarà in tutte le anime» il che — se posso permettermi — dà più una figura di immanenza che di trascendenza.
«La trascendenza resta perché quella luce, tutta in tutti, trascende l’universo e le specie che in quella fase lo popolano. Ma torniamo al presente. Abbiamo fatto un passo avanti nel nostro dialogo. Abbiamo constatato che nella società e nel mondo in cui viviamo l’egoismo è aumentato assai più dell’amore per gli altri e gli uomini di buona volontà debbono operare, ciascuno con la propria forza e competenza, per far sì che l’amore verso gli altri aumenti fino a eguagliare e possibilmente superare l’amore per se stessi».
Qui anche la politica è chiamata in causa.
«Sicuramente. Personalmente penso che il cosiddetto liberismo selvaggio non faccia che rendere i forti più forti, i deboli più deboli e gli esclusi più esclusi. Ci vuole grande libertà, nessuna discriminazione, non demagogia e molto amore. Ci vogliono regole di comportamento e anche, se fosse necessario, interventi diretti dello Stato per correggere le disuguaglianze più intollerabili».
Santità, lei è certamente una persona di grande fede, toccato dalla grazia, animato dalla volontà di rilanciare una Chiesa pastorale, missionaria, rigenerata e non temporalistica. Ma da come parla e da quanto io capisco, Lei è e sarà un Papa rivoluzionario. Per metà gesuita, per metà uomo di Francesco, un connubio che forse non si era mai visto. E poi, le piacciono i Promessi Sposi di Manzoni, Holderlin, Leopardi e soprattutto Dostoevskij, il film La strada e Prova d’orchestra di Fellini, Roma città aperta di Rossellini e anche i film di Aldo Fabrizi.
«Quelli mi piacciono perché li vedevo con i miei genitori quando ero bambino».
Ecco. Posso suggerirle di vedere due film usciti da poco? Viva la libertà e il film su Fellini di Ettore Scola. Sono certo che le piaceranno. Sul potere gli dico: lo sa che a vent’anni ho fatto un mese e mezzo di esercizi spirituali dai gesuiti? C’erano i nazisti a Roma e io avevo disertato dalla leva militare. Eravamo punibili con la condanna a morte. I gesuiti ci ospitarono a condizione che facessimo gli esercizi spirituali per tutto il tempo in cui eravamo nascosti nella loro casa e così fu.
«Ma è impossibile resistere a un mese e mezzo di esercizi spirituali», dice lui stupefatto e divertito. Gli racconterò il seguito la prossima volta.
Ci abbracciamo. Saliamo la breve scala che ci divide dal portone. Prego il Papa di non accompagnarmi ma lui esclude con un gesto. «Parleremo anche del ruolo delle donne nella Chiesa.
Le ricordo che la Chiesa è femminile».
E parleremo se Lei vuole anche di Pascal. Mi piacerebbe sapere come la pensa su quella grande anima.
«Porti a tutti i suoi familiari la mia benedizione e chieda che preghino per me. Lei mi pensi, mi pensi spesso».
Ci stringiamo la mano e lui resta fermo con le due dita alzate in segno di benedizione. Io lo saluto dal finestrino.
Questo è Papa Francesco. Se la Chiesa diventerà come lui la pensa e la vuole sarà cambiata un’epoca.