Un felice evento: la pubblicazione del libro di interviste Accanto a Giovanni Paolo II. Gli amici e i collaboratori raccontano, nel tempo che ci prepara alla canonizzazione di questo grande Papa Santo dei nostri giorni. Sono molti amici e collaboratori, e tutti raccontano esperienze e riflessioni personali inedite. Lunedì 7 aprile alla Lumsa di Roma viene presentato ufficialmente, con la presenza di molti degli intervistati. Ne hanno parlato in tutto il mondo perché il libro contiene la prima intervista rilasciata dal papa emerito Benedetto XVI. Dal curatore del volume ho saputo che l’ha scritta di suo pugno in tedesco, ha chiesto all’editore di tradurla all’italiano, e ha poi rivisto e approvato personalmente anche la traduzione italiana: è proprio totalmente sua. Raccomando la lettura integrale del libro: vi si trovano notizie, considerazioni e spunti, commoventi, importanti e utili per il proprio cammino cristiano e amore per la Chiesa, per una conoscenza più da vicino del nuovo Papa Santo, anche per coloro che come me sono stati da lui ordinati sacerdoti e continuamente guidati e formati nella consacrazione e nella missione. Qui per gentile concessione del’editore pubblico ampi stralci dell’intervista a Stanislaw Grygiel, filosofo amico e collaboratore.
I laici hanno avuto un ruolo particolarissimo nella vita e nella formazione di Karol Wojtyla. A Cracovia il futuro Pontefice si occupava della pastorale dei giovani, poi delle famiglie e degli intellettuali. In questo ambiente nacquero delle amicizie che sarebbero durate per sempre, anche dopo che l’Arcivescovo di Cracovia fu eletto al soglio di Pietro. Particolarmente fraterno il legame che si stabilì negli anni fra Wojtyla e il prof. Stanislaw Grygiel. Grygiel, laurea in Filologia polacca all’Università Jagellonica di Cracovia, dottorato in Filosofia cristiana all’Università cattolica di Lublin, dal 1980 vive con la famiglia a Roma, dove per tanti anni è stato ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio istituto Giovanni Paolo II presso la Pontificia università lateranense, rivestendo anche l’incarico di visiting professor presso lo stesso istituto a Washington, negli Stati uniti.
Vicino a Karol Wojtyla dall’età giovanile fino alla morte, il prof. Grygiel è la persona giusta a cui chiedere del valore che il nuovo Santo dava all’amicizia e con cui ragionare sulla grande attenzione che il Papa ha avuto per i laici nella Chiesa.
Giovanni Paolo II ha dato un grandissimo impulso al riconoscimento del ruolo dei laici nella Chiesa. Un atteggiamento che si evidenzia già nell’attività pastorale di Karol Wojtyla sacerdote e, successivamente, vescovo a Cracovia. Lei, Professore, ne è testimone, essendo stato legato al futuro Pontefice da legami di amicizia di lunga data…
La vita e il lavoro dell’uomo dipendono non solo da lui ma anche dall’humus in cui si trova, che è costituito dalla storia, dall’ambiente e dalla cultura. Molto già è stato detto della storia e della cultura polacche, senza le quali non è possibile comprendere né la persona di Giovanni Paolo II né la sua azione pastorale. Poco conosciuto è, invece, l’ambiente di Cracovia, con le persone che sono state decisive per la sua vita.
Prima di tutto occorre ricordare la figura di Jan Pietraszko, grande vescovo, oggi servo di Dio, che mostrò al giovane sacerdote Wojtyla la via che conduce ai giovani. Giovanni Paolo II stesso ne diede testimonianza nel telegramma inviato a Cracovia per la morte del vescovo: «Tu mi hai aperto la via che porta a loro». Ricordo una cena dal Papa con mons. Pietraszko. Quest’ultimo gli aveva portato in dono l’ultimo suo libro. A un certo punto il Santo Padre gli disse: «Vescovo Jan, io imparo la teologia da te». Pietraszko rimase assai perplesso e uscendo dall’appartamento pontificio chiese a me e a mia moglie: «Ditemi, l’ha detto sul serio, oppure scherzava? I miei libri sono per i parroci!». Ma il Papa, parroco del mondo intero, non aveva scherzato. Mons. Pietraszko è stato uno dei più grandi maestri della fede nella Chiesa polacca del XX secolo. Per me, è un vero Padre della Chiesa.
In che cosa consisteva il metodo pastorale di mons. Pietraszko?
Nel non avere alcun metodo concettualmente elaborato. Semplicemente, egli era sempre con noi giovani, non solamente in chiesa. Pregava con noi, pranzava con noi, meditava e si divertiva con noi. Guardando a lui, vedevamo un modo affascinante di essere nel mondo. Affascinati, cercavamo la sorgente dalla quale lui, in ginocchio, attingeva l’acqua. Dal sacerdote che non sta in ginocchio si potrà imparare a bere dalla bottiglia delle bevande elaborate, artificiali, ma mai la pura acqua sorgiva.
Sono stati Giovanni Paolo II e il vescovo Pietraszko a farci vedere come la cultura consista nel saper coltivare la terra sulla quale l’uomo cresce e matura «per risorgere», secondo l’espressione di un grande poeta polacco da loro spesso citato, C. K. Norwid. La cultura, ci dicevano, non si riduce all’erudizione. Anzi, nulla vi è di più pericoloso per la società degli eruditi privi della cultura. Perché solo la cultura è vivificante, perché è «per risorgere». La cultura o è pasquale o non è cultura. Da questo stare insieme nacque una profonda amicizia, una di quelle amicizie che valgono per sempre; e non solo tra loro e noi, ma anche tra noi stessi. In quest’amicizia l’aiuto o, se si preferisce, il lavoro pastorale era reciproco. Wojtyla e Pietraszko aiutavano i giovani e i giovani aiutavano loro a cercare Dio e a camminare verso di lui. I nostri vescovi erano perfettamente consapevoli che l’agricoltore cresce e matura insieme con le piante affidate alla sua cura.
Tra gli amici non ci sono barriere e loro due erano per noi sempre raggiungibili, disponibili. Potevamo andare a trovarli quando volevamo. Si poteva bussare alla loro porta anche di notte. Le pecore non chiedono udienza ai pastori, li seguono giorno e notte. Se non sono in condizioni di farlo, è segno che sono pecore senza pastori.
Lei parlava della pastorale dei giovani, ma il futuro Pontefice si occupava anche delle famiglie, degli studenti, degli intellettuali…
Ho detto che i due vescovi crescevano e maturavano di pari passo con i giovani. Ma i giovani si sposavano e di conseguenza essi dovettero imparare a stare con gli sposi, poi anche con i loro figli, che consideravano come dei «nipoti spirituali».
Don Wojtyla iniziò la sua attività pastorale con i giovani chierichetti nella parrocchia di san Floriano a Cracovia. Ma con il tempo, anche questi giovani da studenti si trasformarono in professori, medici, avvocati… E come già era accaduto al più anziano Pietraszko, anch’egli si vide «costretto» a curare la pastorale degli adulti professionisti che ora si trovava davanti.
In questo modo, estendendo la propria azione pastorale, questi nostri vescovi ebbero l’opportunità di comprendere dall’origine, dalla realtà viva piuttosto che dai libri, che cosa significhi il termine «laicato». Soprattutto, attinsero «alla sorgente» la verità del matrimonio e della famiglia.
Non è possibile insegnare queste cose in seminario?
A vivere si impara vivendo; a fare facendo. Il problema è se i superiori del seminario stiano o sappiano stare insieme con i seminaristi; se sappiano coltivare la terra sulla quale loro stessi abbiano la possibilità di crescere e maturare con i seminaristi. La pastorale non è una teoria, ma una convivenza. Le teorie sono da mandare a memoria, mentre la pastorale esige la saggezza che nasce negli uomini presenti l’uno all’altro. La conoscenza delle teorie può perfino ostacolare la presenza reciproca delle persone; cioè, le teorie sulla pastorale possono distruggere la pastorale stessa. Di pastorale si può discutere, si possono fare convegni, pubblicare tanti documenti, ma la vera pastorale è lo scambio dei doni tra il sacerdote e il fedele. Questo Wojtyla lo aveva compreso molto bene.
In che modo la mancanza della libertà religiosa nella Polonia comunista influiva sull’azione pastorale della Chiesa?
Negando alla Chiesa ogni forma di attività pubblica, il regime comunista l’aveva costretta a vivere nelle relazioni strettamente personali. Il nostro «essere insieme», paradossalmente, lo dovevamo nascondere, poiché la polizia cercava in ogni modo di ostacolarlo e di distruggerlo. Ma grazie anche a queste dinamiche, nella semiclandestinità, i rapporti di amicizia, di reciproca fiducia, diventando sempre più forti, ci rivelavano la bellezza della Chiesa, che ci rendeva liberi da tutto ciò che è legato al mero possesso. Così Dio si serviva e si serve anche di coloro che Lo negano.
Lei apprese a Cracovia la notizia che la scelta dei cardinali riuniti a conclave era caduta sul «suo» Arcivescovo e seguì dalla Polonia i primi mesi del pontificato wojtyliano. Che impatto ebbe l’elezione di Karol Wojtyla sulla vita dei cattolici polacchi?
Posso soltanto ripetere cose dette e ridette. La prima reazione dei polacchi fu la gioia, ma seguì subito la consapevolezza delle nuove possibilità che quel giorno si erano aperte per la loro Patria e per la loro Chiesa. I polacchi compresero che da allora in poi la Chiesa non avrebbe più dovuto svolgere la propria attività pastorale nella semiclandestinità. I cattolici si fecero più coraggiosi e audaci: ne furono segno eloquente le manifestazioni popolari per le strade del Paese che, senza che alcuno avesse chiesto il permesso, durarono per tutta la notte del 16 ottobre del 1978.
Mi ricordo le discussioni di quelle ore con gli amici: eravamo convinti che le nostre frontiere si sarebbero aperte all’Occidente e che, prima o poi, anche politicamente la Polonia sarebbe uscita dal blocco comunista. Fino ad allora si pensava che il comunismo sarebbe durato ancora per generazioni, dal momento che era a tutti chiaro come gli intellettuali e i politici occidentali si lasciavano sedurre dalle parole e dal denaro della polizia segreta sovietica: quante volte, infatti, proprio loro avevano tentato di convincerci che dovevamo adeguarci al comunismo! Ma con il primo pellegrinaggio del Santo Padre in Polonia nel 1979 l’orizzonte mutò a un tratto, radicalmente.
Il Papa seppe risvegliare nei polacchi la speranza assopita da oltre quarant’anni di comunismo. Nei primi anni del pontificato si fece via via più nitida l’aurora dei tempi nuovi, non solo per la Polonia.
Potrebbe ora spiegarci come Giovanni Paolo II seppe trasfondere nel suo magistero petrino tutto il bagaglio delle esperienze pastorali, culturali e politiche che aveva maturato in Polonia?
A Roma Karol Wojtyla continuò a essere uomo e sacerdote «con gli altri», esattamente come a Cracovia. Non cambiò nulla nel proprio comportamento. Non imponeva sé stesso ad alcuno e, d’altra parte, non si chiudeva in quello che potremmo definire «isolamento pontificale». Per questo poteva assorbire la fede, la speranza e l’amore da tutte le persone che Dio affidava al suo lavoro pastorale, per poi valorizzare ed esprimere questi doni con la forza propria della fede, della speranza e dell’amore di Pietro. Non pronunciava condanne Giovanni Paolo II, semplicemente confessava la fede della Chiesa, attendendo che tutti arrivassero a maturare, e lui con loro. Per Wojtyla la libertà dell’uomo era res sacra, e questa concezione gli veniva da quanto egli aveva vissuto nelle tenebre dell’occupazione della Polonia da parte dei tedeschi, prima, e poi dei russi. Guardando al futuro della Chiesa, approfittava di ogni occasione per incontrare gli sposi e le famiglie. E considero profetica la decisione di fondare il Pontificio istituto per gli Studi su matrimonio e famiglia, che fa parte della Pontificia università lateranense.
Coloro che si erano abituati all’isolamento dei pontefici rimasero addirittura scandalizzati nell’assistere all’abbattimento delle barriere un tempo erette a simbolo della dignità petrina. Giovanni Paolo II scrisse un gran numero di testi. Non era, però, la parola scritta che egli cercava di dare agli altri, ma faceva ogni cosa in modo che la sua vita diventasse parola, come Dio stesso l’aveva pensato per gli altri, scegliendolo come Pastore. Credo che il lavoro pastorale sia spesso soffocato dalla troppa carta: fare il pastore vuol dire «pascolare», cioè stare con il gregge. Cristo non scrisse nemmeno una riga, Egli è lettera pastorale vivente inviataci dal Dio vivente. È lui e non un qualche suo testo a rimanere con noi. Agli uomini viventi Dio manda uomini viventi. Egli non è Dio dei morti (cfr Mt 22,32).
Chi ha avuto la fortuna di essere ospite di Giovanni Paolo II notava che nell’appartamento del Papa si respirava l’aria di famiglia. Il Pontefice era circondato non soltanto da segretari, suore e collaboratori, ma anche da tanti vecchi amici che frequentavano l’appartamento pontificio, spesso accompagnati dai famigliari. La sua famiglia era una di quelle fra le più ospitate. Che cosa ricorda di questi incontri?
La semplicità della bontà del Papa. I dialoghi con lui erano scambi di doni: egli ci donava la presenza della sua persona e noi, ricevendola, avevamo la sensazione di avergli donato la nostra. Egli aspettava gli altri, li cercava. Egli era per gli altri. Ed era un uomo fedele. È proprio grazie a questa fedeltà, che gli era propria, e per la condivisione con tanti fidanzati, sposi, padri e madri… che egli comprese appieno la verità di quell’alleanza che, nell’amore, due persone saldano per sempre. Dava, inoltre, il suo tempo con uguale rispetto verso tutti, adulti o bambini che fossero. Una volta, mentre ci trovavamo a cena da lui, mio figlio, allora di soli otto anni, prese a tirarmi dei calci da sotto la tavola, per farmi capire che voleva tornare a casa. Il Santo Padre se ne accorse e gli chiese: «Che cosa c’è che non va?». Al che mio figlio, senza tanti complimenti, rispose: «Mi sto annoiando. Vorrei andare a casa». E il Papa: «Hai ragione. Io ti ho invitato da me e non mi occupo di te. Devi scusarmi ». Da quel momento, fino alla fine della serata, si mise a giocare e scherzare con lui. Per me fu una lezione su ciò che significa vivere per il prossimo ed essere pastore.
Che cosa le manca di più di Giovanni Paolo II?
Nulla mi manca tranne, ogni tanto, la sua presenza fisica. Tutto ciò che era essenziale e proprio della sua persona mi è sempre presente. La sua morte non ha distrutto nulla. Il nostro dialogo continua. Nel cuore della Chiesa, cioè nell’Eucaristia, non ci sono morti.