Commento al Vangelo della XXXIV^ domenica dell’anno A
Nel rito romano la domenica XXXIV del tempo ordinario è dedicata alla solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo. Nella messa dell’anno A leggiamo il vangelo di Matteo con il discorso di Gesù sul giudizio universale, che abbiamo applicato alle domeniche precedenti come chiave di lettura delle parabole delle vergini e dell’olio e di quella dei talenti fatti fruttare o no. Sono parole che piace molto citare a Papa Francesco in quanto paradigma essenziale per comprendere la vita cristiana.
Mt 25, 31-46
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”.
E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”.
Secondo i racconto di Matteo è l’ultimo discorso di Gesù prima che cominci la sua passione.
Dopo dirà ai suoi: tra due giorni è Pasqua. È una descrizione drammatica del giudizio universale e illumina le due parabole che lo precedono. Dice come comprare dai rivenditori l’olio con cui potersi presentare alla festa delle nozze del re e come raddoppiare il talento della vita.
Nelle parole di Ezechiele che leggiamo nella prima lettura, impressionano i gesti di cura di Dio: “Cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna […] le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse […] Io stesso condurrò […] al pascolo e io le farò riposare […] Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò”.
Questo testo accostato al vangelo del “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” fa emergere la logica divina: “che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi”.
Dio ci tratta come il buon pastore rivelato a Ezechiele e si prende cura di ciascuno di noi con le nostre problematiche personali, con la nostra storia da redimere, le nostre ferite da curare. E ci chiede di dare agli altri quello che già lui ha dato a noi e nello stesso modo, con la stessa cura.
Ci svela il motivo profondo: in chi ha più bisogno, è presente Lui. Ci ha lasciato i problemi irrisolti, le sciagure, le fatiche, i dolori e le disuguaglianze perché il nostro amore fosse svegliato a curare, a colmare, a dare ciò di cui ciascuno ha bisogno.
Altrimenti a cosa servirebbe l’immensa capacità d’amore che lo Spirito Santo ha riversato nei nostri cuori?
È così forte per il creatore il grido del povero, che lo prende del tutto su di sé, lo fa proprio: Dio si identifica con il bisognoso. Ultimo tra gli ultimi, il più povero è Lui.
Importante è notare la sorpresa sia di coloro che gli hanno dato cibo, bevanda, vestiti, ospitalità, vicinanza e solidarietà, sia di coloro che non glieli hanno dati. Non si sono accorti che era Lui.
È una distrazione molto confortante: pare che non conti tanto per Lui che la nostra fede o convinzione fosse così forte da vedere lui nell’ammalato, affamato, carcerato, mentre lo accudivamo. Quello che conta per Lui è l’amore fattivo con cui interveniamo.
Quante persone dunque che hanno fatto del bene con generosità, anche se carenti di tante altre qualità, al termine della loro vita avranno ricevuto l’invito del Figlio di Dio a partecipare alla sua gioia?
Il desiderio dell’uomo di vedere Dio – il tuo volto io cerco, mostrami il tuo volto – riceve qui una risposta: Gesù è in chi ha bisogno, in chi è povero, in chi è abbandonato, in chi cerca amore e non trova amore.
Coloro che gli hanno dato amore concreto e in opere, ricevono l’invito: venite benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno.
Coloro che non gli hanno dato, sono maledetti, ma non dal Padre che non maledice nessuno, ma dal loro stesso egoismo e dalla loro mancanza d’amore. Sono stati lontano da Cristo in vita, rimangono lontani da lui nell’eternità.
Ci possiamo domandare se questo passo del vangelo illumina i nostri esami di coscienza, prima della Messa e prima della Confessione e quelli quotidiani al termine della giornata.
O se sono altre le domande che ci facciamo, magari dettate da perfezionismo o dallo scrupolo che Dio ci chieda conto, nel nostro incontro definitivo con lui, di altre cose rispetto a quelle che cita in questo suo Vangelo. Due giorni dopo aver detto queste parole, come dicevamo, secondo l’evangelista Matteo, Gesù mostrerà che è proprio affamato e assetato (“Ho sete!”), carcerato, nudo sulla croce, crocifisso fuori della città come forestiero, ha tutte le malattie (“Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”) (Is 53,2).
Eppure tutti i discepoli, che avevano ascoltato dalla sua viva voce quelle parole cosi chiare solo due giorni prima, “lo abbandonarono e fuggirono” (Mt 25,56) e Pietro dirà giurando: “Non conosco quell’uomo” (Mt 26,72). Nell’ultima cena aveva predetto: “Mi lascerete solo” (Gv 16,32).
Eppure, incontrandoli dopo la risurrezione, e dando loro il mandato di andare in tutto il mondo a portare il suo Vangelo, offre loro la possibilità di ricominciare, di convertirsi di nuovo, di riprovare a riconoscerlo affamato, assetato, nudo, forestiero, malato, carcerato, e di soccorrere tutte le sue necessità. Li manda nel mondo a portare proprio quel Vangelo.
Alcuni studiosi affermano che fu la carità vissuta, assoluta novità, a diffondere la fede nel mondo pagano antico.
Gesù aveva promesso: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli”.
Dio, che è povero, anche oggi ci chiede e vuole avere bisogno di noi, attraverso le sue creature più fragili e indifese, come un innamorato bisognoso d’amore.