Commento al Vangelo della XXIV domenica del tempo ordinario
Nell’ambito del cosiddetto discorso ecclesiale o comunitario di Gesù, come si definiscono i discorsi del Vangelo di Matteo che leggiamo nel cap. 18, dopo il discorso sulla correzione fraterna e quello sulla preghiera unita dei fratelli al Padre, che abbiamo letto domenica scorsa, nella ventiquattresima domenica del temo ordinario dell’anno A, il prossimo 13 settembre, leggiamo una parabola sul perdono, da meditare e vivere “se il mio fratello commette colpe contro di me”.
Mt 18, 21-35
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Nel discorso ecclesiale di Gesù torna il tema del perdono, che già era presente nella preghiera del Padre nostro (Mt 6, 12-15).
Una domanda di Pietro propone la questione: “se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?”.
Le stesse parole che Gesù ha usato poco prima per parlare della correzione: “se tuo fratello commetterà una colpa contro di te”.
Pietro fa presente che di fronte al fratello che pecca c’è anche un atteggiamento diverso dalla correzione, alternativo o complementare: il perdono.
I rabbini discutevano sul limite del perdono e lo fissavano in due o tre volte.
Pietro amplia di molto: “fino a sette volte?“, sette che è il numero della perfezione.
Lamech all’inizio della Genesi (4, 23-24) diceva:“sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”.
Gesù cambia la vendetta in perdono e lo moltiplica: con “settanta volte sette” abbatte ogni limite.
Per ribadire il messaggio narra una parabola, che riporta solo Matteo, che non è facile da assimilare. Forse perché il comportamento del servo appare odioso, o perché veniamo messi con le spalle al muro di fronte al dovere del perdono e anche perché il re, immagine di Dio Padre, alla fine sembra rimangiarsi la misericordia. Ma non è così.
Proviamo a entrare nella parabola. Al re che vuole regolare i conti con i suoi servi viene presentato uno che gli deve diecimila talenti.
È una cifra iperbolica, fuori dalla realtà del rapporto tra un servo e il suo re.
Un talento sono 36 chili di metallo prezioso e vale 6.000 giornate lavorative.
10.000 talenti equivalgono a 60 milioni di giornate lavorative, pesano 3600 quintali, servono 360 furgoni per trasportarli.
Il servo dice “ti restituirò”, ma non sarà mai possibile una restituzione di questa quantità da parte di un servo verso il suo re.
L’unica salvezza è la compassione del re.
Gesù ci sta parlando del debito impagabile che abbiamo con Dio per tutto ciò che ci ha donato: la vita, la grazia, la fede, la salvezza, e per tutto ciò che ci ha perdonato.
Il rapporto del servo con il re è la storia di salvezza dell’uomo.
Venduto schiavo dal peccato d’origine e dai peccati personali insieme a moglie, figli e averi, a tutto il creato. Il condono del re equivale a un’adozione a figlio, che libera.
È ciò che accade nel battesimo.
L’uomo subito dopo soffoca il compagno che gli deve cento denari, che sono tre mesi di stipendio. La differenza tra i due debiti è abissale.
Purtroppo è storia quotidiana nella storia dell’uomo. Ad ogni nostro simile dobbiamo perdono e viceversa.
Se perdiamo la logica del perdono gratuito ricevuto da Dio e ci abbassiamo ad una pretesa giustizia, si blocca il nostro cuore e perdiamo anche il rapporto di filiazione con il re che avevamo ricevuto in dono.
E soffriamo, come in mano ad aguzzini.
L’amore infinito ricevuto da Dio lo dobbiamo dare ai nostri uguali, con la stessa compassione, altrimenti perdiamo la carità e con essa perdiamo, per nostra colpa, l’amore con cui Dio ci ama.