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Londra. Fotografia di Sofia Mardegan |
Carlo De Marchi nel suo ultimo articolo su “Studi cattolici”, ottobre 2013, pag. 685-687, intitolato “Breve storia del sorriso”, continua la sua riflessione sulle virtù e gli atteggiamenti positivamente relazionali. Prende l’avvio da considerazioni di Benedetto XVI, per trovarne la fonte in Chesterton, e da li tornare sull’esempio e gli scritti di Thomas More, celebre santo del buonumore, per arrivare fino a papa Francesco. L’autore che era già intervenuto sull’argomento della capacità di scherzare in situazioni difficili tipica di alcuni santi ( http://donandreamardegan.blogspot.it/2013/05/la-capacita-di-scherzare-anche-nel.html ) continua la sua riflessione sul buon umore come virtù, la capacità di non prendersi troppo sul serio, come leggerezza dell’anima che si lascia così portare della grazia di Dio sulle ali del vento dello Spirito, fino in cielo.
In un’intervista del 2006 un giornalista domandò a Benedetto XVI quale fosse l’importanza del buonumore e della leggerezza nella vita di un Papa. “Io non sono un uomo a cui vengano in mente continuamente delle barzellette”. Non si trattava di una conversazione scritta, la domanda era per una trasmissione radiofonica e quindi la risposta, a cominciare dalla prima battuta autoironica, ha il sapore dell’autenticità. “Ma saper vedere anche l’aspetto divertente della vita – proseguiva Benedetto – e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente, questo lo considero molto importante, e direi che è anche necessario per il mio ministero. Un qualche scrittore aveva detto che gli angeli possono volare, perché non si prendono troppo sul serio”[1].
La serietà non è una virtù
La citazione è di un autore caro a Ratzinger, e cioè G. K. Chesterton. Il passo è il seguente: “una caratteristica dei grandi santi è il loro potere di levità.
Gli angeli possono volare perché prendono sé stessi con leggerezza. Questo fu sempre l’istinto del cristianesimo e in particolare dell’arte cristiana. Ricordate come Fra Angelico abbia rappresentato tutti i suoi angeli non soltanto come uccelli ma quasi come farfalle (…). Negli antichi quadri cristiani il cielo al disopra di ogni figura è come un paracadute blu e oro; ogni figura sembra pronta a levarsi e a navigare nel cielo”[2].
Il ragionamento chestertoniano non intende tuttavia essere solo estetico o iconografico. E infatti il discorso si allarga e collega il “prendersi troppo sul serio” con la radice di ogni male, cioè la superbia, che assai spesso si accompagna di toni solenni (parlando di sé) e sguardi severi (rivolti agli altri). “L’orgoglio è il trascinarsi di tutte le cose in una facile solennità. Uno si può ‘adagiare’ in una specie di egoistica serietà, ma è costretto ad alzarsi se vuole gustare il gioioso oblio di sé stesso”. La battuta che segue è divenuta celebre: “la serietà non è una virtù. Sarà forse un’eresia, ma un’eresia molto più sensata dire che la serietà è un vizio. C’è realmente una tendenza (una sorta di decadenza) naturale a prendersi sul serio perché è la cosa più facile a farsi”. E la folgorante conclusione: “La solennità viene fuori dagli uomini senza fatica; invece la risata è uno slancio. E’ facile essere pesanti e difficile essere leggeri. Satana è caduto per la forza di gravità”[3].
Alla comoda seriosità che accompagna l’orgoglio si contrappone dunque l’umiltà di chi non si prende troppo sul serio. L’orgoglio porta a guardarsi allo specchio con solennità. Non c’è soltanto mancanza di umiltà, c’è anche poco coraggio. Ci vuole infatti forza d’animo per guardare sé stessi con realismo, vincendo il timore che tende a sfumare i propri difetti in un quadro dai contorni poco chiari, dove è più facile attribuire responsabilità ad altri e rimanersene tranquilli… Chesterton riscontra in questa visione una deformazione della realtà che è prodotta nientemeno che dalla tentazione del demonio.
Guardare sé stessi con leggerezza
Il precursore di questa idea di Chesterton è Thomas More, che nel Dialogo del conforto nella tribolazione descrive la lotta contro la tentazione nel modo seguente: “alcuni si sono liberati del tutto da queste fantasie pestifere semplicemente disprezzandole, facendosi un segno della Croce sul cuore e scacciando così il diavolo, a volte perfino deridendolo e pensando ad altro”. Di fronte a questo atteggiamento di derisione, il demonio si ritira, “perché lo spirito orgoglioso non sopporta di essere preso in giro”[4]. E non è un caso – diciamo per inciso – che queste parole di More siano state poste da C. S. Lewis all’inizio delle Lettere di Berlicche, che è un vero e proprio trattato di spiritualità basato sul buon senso, sul buonumore e sull’umiltà, considerate come le armi principali nella lotta contro il tentatore.
Una preghiera tradizionalmente attribuita a Thomas More chiede a Dio il dono del senso dell’umorismo, insieme a quello “di capire uno scherzo e di conoscere nella vita un po’ di gioia, e poterla così comunicare anche agli altri”. Ma questa richiesta è preceduta da un’altra, che è il fondamento necessario per la gioia quotidiana: “donami un’anima che non conosca la noia, la mormorazione, i sospiri, le lamentele, e non permettermi di soffrire eccessivamente per quella realtà invadente che si chiama io”[5].
La centralità dell’umiltà nella vita cristiana si vede bene in un’altra immagine moreana: “Per quanto alta tra le nuvole la freccia dell’orgoglio possa volare e per quanto grande sia l’emozione che si provi sentendosi portare così in alto, ricordiamoci che anche la più leggera di queste frecce ha pur sempre una punta di acciaio. Può volare in alto, ma deve poi inevitabilmente ricadere giù per terra. E non sempre ricade in un luogo troppo pulito”[6].
E’ interessante notare che nel momento più drammatico della sua vita Thomas More venne accusato proprio di orgoglio. Roper racconta che, durante il processo, “il Lord Cancelliere – nel tentativo di farlo ritornare sui suoi passi, dopo la condanna – gli contestò che, dal momento che tutti i Vescovi, le Università e le persone più dotte dell’intera nazione avevano aderito a quest’Atto, era ben strano che lui solo s’impuntasse così ostinatamente contro tutti loro e vi si opponesse con tanta protervia”. L’accusa era precisa, e rispondendo More correva il rischio di lasciarsi andare in affermazioni di presuntuoso disprezzo nei confronti di tutta l’aristocrazia inglese dell’epoca, che aveva accettato l’Atto con cui Enrico VIII si era posto a capo della Chiesa anglicana. Le parole del condannato furono le seguenti: “Non dubito che – se non in questa nazione in tutto il resto della Cristianità – fra i Vescovi di più vasta dottrina e le persone di più alta virtù tuttora viventi, coloro che hanno la mia stessa opinione siano in minoranza. Ma se io dovessi riferirmi a coloro che sono già morti, molti dei quali sono ora santi in Paradiso, ho l’assoluta certezza che durante la vita terrena la grande maggioranza di essi pensavano riguardo a questo punto esattamente come penso io in questo momento. Pertanto, mio signore, io non mi sento obbligato a conformare la mia coscienza al Consiglio di un solo regno contro il Grande Consiglio dell’intera Cristianità”[7].
Prendere sul serio gli altri
L’accusa di orgoglio si aggiungeva a quella che più volte era stata avanzata contro Thomas More, e cioè quella di aggredire con disprezzo gli avversari. Il celebre umorismo moreano veniva considerato sarcasmo privo di carità, e quindi non degno di un cristiano. Ma l’accusa di sarcasmo è smentita anche dal tono tutt’altro che sprezzante dell’ultima dichiarazione di More davanti chi l’aveva appena condannato: “Non ho più niente da aggiungere se non che – come si legge negli Atti degli Apostoli – san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano, ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi Santi in Paradiso, e lassù sono amici per sempre. Così io fermamente confido – e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere – che benché voi, miei signori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza”[8].
In effetti il sarcasmo e l’ironia sprezzante sono linguaggi che tendono a imporre l’io sugli altri. Invece, è proprio l’umiltà che porta More a sorridere guardando sé stesso (sono celebri le sue battute sul patibolo, sul fatto se la barba si meritasse o meno di essere tagliata dalla scure del boia) e a trattare con rispetto gli altri, prendendoli sul serio. Un umorismo che disprezzasse gli altri diventerebbe facilmente affermazione dell’io contro tutti (dai toni più nietzschiani che cristiani).
Di nuovo è interessante notare come questo legame tra umorismo, umiltà e rispetto per l’insieme delle persone che ci hanno preceduto e dai quali la nostra storia personale dipende, cioè per la tradizione, non sia sfuggito a Chesterton. In un passo centrale di Ortodossia si legge che “la tradizione non è che la democrazia estesa nel tempo. E’ la fiducia nelle voci comuni dell’umanità piuttosto che in qualche nota isolata e arbitraria. Chi cita qualche storico tedesco contro la tradizione della Chiesa cattolica, per esempio, crede nell’aristocrazia: fa appello alla superiorità di un esperto contro la formidabile autorità di una folla”. Il ragionamento ha un sapore tutto moreano e prosegue affermando in modo paradossale la superiorità delle leggende rispetto ai libri di storia: “la leggenda è fatta generalmente dalla maggioranza – assennata – degli abitanti di un villaggio; il libro in genere è scritto, fra gli abitanti del villaggio, da quello che è matto (…). Tradizione significa dare il voto alla più oscura di tutte le classi, quella dei nostri avi. E’ la democrazia dei morti. La tradizione rifiuta di sottomettersi alla piccola e arrogante oligarchia di coloro che si trovano nella fortuita circostanza di essere vivi. I democratici affermano l’idea che una persona, per la fortuita circostanza di essere nata, non possa essere squalificata; la tradizione afferma che nessuno può essere squalificato per il fatto accidentale di essere morto”[9].
In occasione di un dialogo informale con alcuni sacerdoti, Benedetto XVI propose un ragionamento che si trova perfettamente in linea con la visione moreana e chestertoniana della tradizione. La domanda manifestava lo sconcerto di chi, studiando teologia, si trova spesso di fronte a teorie che si propongono come scientifiche, ma spesso sono solo opinioni personali presentate come verità assolute. Il tono della risposta di Papa Benedetto è pacato: “Io seguo la teologia dal ’46; ho incominciato a studiare la teologia nel gennaio ’46 e quindi ho visto quasi tre generazioni di teologi, e posso dire: le ipotesi che in quel tempo, e poi negli anni Sessanta e Ottanta erano le più nuove, assolutamente scientifiche, assolutamente quasi dogmatiche, nel frattempo sono invecchiate e non valgono più! Molte di loro appaiono quasi ridicole”. Si intuisce il sorriso del teologo, nel ripercorrere i propri e gli altrui andirivieni teologici, specialmente quando non sono stati accompagnati da una sana diffidenza nei confronti del proprio giudizio. Il suggerimento è di “avere il coraggio di resistere all’apparente scientificità, di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, ma pensare realmente a partire dalla grande fede della Chiesa, che è presente in tutti i tempi e ci apre l’accesso alla verità”. E la conclusione non può stupire: si tratta di “avere l’umiltà di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, vivere della grande fede della Chiesa di tutti i tempi. Non c’è una maggioranza contro la maggioranza dei Santi: la vera maggioranza sono i Santi nella Chiesa e ai Santi dobbiamo orientarci!”[10].
Sorriso e magnanimità
Nell’intervista citata sopra, Benedetto XVI, il mite “Papa teologo” offrì anche una chiave di lettura ante litteram dell’atteggiamento affabile del suo successore. Il cordiale “buonasera” con cui Papa Francesco ha aperto il suo primo discorso al mondo è già passato alla storia. Ma non si è trattato di una gaffe, dovuta alla poca dimestichezza con il suo nuovo ruolo. Con l’andare dei giorni l’atteggiamento disteso e tutt’altro che serioso del nuovo Pontefice si è rivelato un tratto caratteristico della sua personalità, in particolare quando parla a braccio distaccandosi da un testo scritto in anticipo. Ma toni analoghi si ritrovano in un testo che ha invece un carattere formale, e cioè le lettera inviata dal Papa ai vescovi argentini a fine marzo 2013, che si apre con le scuse “per non essere lì con voi per ‘impegni assunti da poco’ (suona bene?), anche se sono con voi spiritualmente e chiedo al Signore che vi sia molto vicino nei prossimi giorni”. Verso la fine della lettera il Papa chiede ai vescovi argentini “per favore, di pregare per me affinché non mi creda chissà chi e sappia ascoltare ciò che vuole Dio e non ciò che voglio io”. L’espressione spagnola “que yo no me la crea” (che abbiamo reso con “non mi creda chissà chi”) può essere tradotta anche con “non mi prenda troppo sul serio”[11].
Queste parole sembrano sintetizzare bene il rapporto tra umiltà, sorriso e magnanimità. E’ lo sguardo bonario con cui ciascuno guarda se stesso che rende capaci di apertura agli altri. E, paradossalmente, questa umile e sorridente apertura consente di assumersi gravi responsabilità e intraprendere iniziative che richiedono coraggio. “Gli angeli possono volare, perché non si prendono troppo sul serio”. Nell’intervista che ha dato l’avvio a queste riflessioni Benedetto XVI aggiungeva una conclusione: “E noi forse potremmo anche volare un po’ di più, se non ci dessimo così tanta importanza”.
Nelle ultime parole di Thomas More risuonano la magnanimità e il coraggio di un eroe classico: “Muoio da servo fedele del Re, e innanzitutto di Dio”. E il suo più grande biografo commenta commosso: “Le parole di More sono le più alte, le più orgogliose che mai siano state pronunciate dal patibolo”[12]. Fu in grado di pronunciarle un uomo capace di non prendere troppo sul serio se stesso e, invece, di prendere sul serio gli altri, le persone che aveva intorno e quelle che lo avevano preceduto. In lui erano tutt’uno, dice Louis Bouyer, “il giurista di professione, l’uomo di Stato, il padre di famiglia, l’amico, il pensatore, il mistico, il martire infine, oltre che l’uomo di tutti i giorni, con la sua perspicacia, la sua sensibilità, la sua generosità, oltre al suo humour, che mette ogni cosa al suo posto, ponendo dolcemente, ma fermamente, in disparte ogni falso aspetto”[13].
[1] BENEDETTO XVI, Intervista radiofonica, Castelgandolfo, 6 agosto 2006.
[2] G.K. CHESTERTON, Ortodossia, Morcelliana, pp. 165-166 (cap. VII, “La rivoluzione eterna”).
[4] T. MORE, Dialogo del conforto nella tribolazione, II, 16 (155/9-12); cfr. anche Vita di Tommaso Moro, Morcelliana, Brescia 1963, p. 45, in cui il biografo attribuisce a More queste parole: “il diavolo è troppo superbo per tollerare di vedersi preso in giro”.
[5] In realtà l’autore non è More, anche se la preghiera ne incarna bene lo spirito. Così afferma una delle massime autorità negli studi moreani, G. MARC’HADOUR, Thomas More, in VILLER, M. (dir.) “Dictionnaire de Spiritualité”, Paris 1991, coll. 849-865.
[6] T. MORE, Dialogo del conforto nella tribolazione, II, 16.
[7] W. ROPER, Vita di Tommaso Moro, p. 112-114.
[8] W. ROPER, Vita di Tommaso Moro, p. 115.
[9] G.K. CHESTERTON, Ortodossia, pp. 66-67 (cap. IV, “La morale delle favole”). E’ interessante notare che Chesterton in Ortodossia chiama più volte la sua concezione del mondo my utopia, con probabile riferimento sottinteso all’opera di More.
[10] BENEDETTO XVI, Dialogo con i sacerdoti, Piazza S. Pietro, 10 giugno 2010.
[11] FRANCESCO, Lettera ai vescovi argentini, 25 marzo 2013.
[12] R. W. CHAMBERS, Tommaso Moro, Rizzoli, Milano 1965, p. 465.
[13] L. BOUYER, Tommaso Moro, umanista e martire, Jaca Book, Milano 1985, pp. 100-101.
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