Gv 4, 46-53
Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia.
Ero considerato un uomo di fiducia del tetrarca di Galilea, Erode Antipa, che veniva anche chiamato re. Abitavo a Cafarnao, città doganale. Il mio bambino si era ammalato e a nulla potevano i medici e le medicine. La convinzione, tipica degli uomini del mio rango di potere ottenere tutto con il potere terreno, mi svanì di colpo. E spuntò l’angoscia, che non avevo mai provato prima. Nella disperazione che cresceva mi tornò alla mente quel Gesù di Nazaret, che aveva cominciato proprio nella mia città ad operare miracoli e a predicare. Insieme agli altri funzionari addetti all’ordine pubblico, eravamo ben informati dei fatti che riguardavano questo rabbi dallo stile nuovo, autore di prodigi mai visti. Sapevamo che le folle lo seguivano, ed erano tanti quelli che dicevano di essere stati guariti da lui con un gesto della
mano, con una parola. Tenevamo d’occhio i suoi spostamenti, eravamo informati bene. Trasmettevamo puntualmente ad Erode ogni notizia su di lui.
Per ragioni d’ordine pubblico sapevo che il rabbi, dalla Giudea, passando per la Samaria, era tornato in Galilea, per la precisione a Cana di Galilea, dove, si diceva avesse compiuto uno dei primi prodigi. Aveva mutato l’acqua in vino! Presi la decisione di raggiungerlo, questa volta non per controllare quello che diceva o faceva ma per chiedergli di scendere fino a casa mia, di tornare a Cafarnao per il mio bambino, per guarirlo. Mentre percorrevamo i trentatré chilometri che separano Cafarnao da Cana di Galilea, le mie guardie del corpo mi riferivano quello che avevano sentito narrare di lui e dei suoi gesti, della sua dottrina. Ero allora un giovane funzionario, efficiente, abituato a comandare e molto determinato. Eppure la prospettiva dell’imminente morte del mio figlio più piccolo mi atterriva. Il dolore di quell’ innocente mi turbava come nessun altra vicenda dolorosa o tragica che avessi dovuto seguire da vicino a motivo del mio lavoro. Non volevo che lo capissero i miei sottoposti , temevo di perdere autorità. Ma lo capivano. E io in quella strada in salita, nei lunghi silenzi del cammino assolato, forse cominciavo a intuire qualcosa di più di quel dolore indicibile, a cui in passato avevo preferito non pensare, di quelle madri e di quei padri che trent’anni prima erano stati crudelmente privati della vita dei loro bambini per ordine di Erode, nella Giudea, per non si sa quale folle ossessione del re, che si immaginò che tra quei bambini potesse esserci chi l’avrebbe scalzato dal trono. Ironia della sorte morì pochi anni dopo, e si diceva che fosse tormentato da incubi e rimorsi. Questi pensieri angosciosi si alternavano accompagnati dal mio respiro affannato per lo sforzo del camminare in salita, all’’immaginarmi quegli altri episodi che mi raccontavano del Maestro. Avevo sentito dire che questo Nazareno prende per mano la persona malata, e così facendo le restituisce forza e vita. Ecco, chiedo solo questo, ma lo desidero con tutto me stesso: voglio che il mio bambino viva, che torni ai suoi giochi. Così gli dirò, pensavo, e lo dicevo ai miei compagni. Così quando lo incontrammo e non fu difficile, tutti sapevano dov’era, e c’era folla sempre attorno a lui, gli dissi subito quello che volevo, forte della mia autorità, del mio ruolo, e anche un po’ dell’impressione di potenza che davano quelli che mi accompagnavano. Maestro, scendi con me a Cafarnao, così puoi vedere il bimbo, toccarlo e dirgli quelle parole che fanno guarire. Non mi accorsi che stavo trattando Gesù come un guaritore qualunque anche se dei migliori finora apparsi nelle nostre strade, come uno che ha poteri speciali nelle mani, come un suddito a cui comandare. Il mio ragionamento era: io sono funzionario del re, tu devi venire con me e guarire mio figlio! A ripensarci dopo mi accorsi che sulle guarigioni avvenute a Cafarnao, avevo reagito con il tipico scetticismo dei funzionari del mio palazzo. A noi interessava che non avvenissero disordini, che non si inquietassero i romani, che la suddivisione del potere continuasse ad essere com’era, senza scossoni e cambiamenti. Per il resto giudicavamo quelle voci, le grida, quegli assembramenti come frutto di isteria collettiva, di ipnosi generalizzata, di fanatismo. La gente cercava cose nuove per evadere dalle difficoltà della vita, pensavamo. Quando fui colpito dalla malattia senza possibile cura di mio figlio, tutta quella sicurezza vacillò. Mi trovai improvvisamente dalla parte delle folle, abbandonate e bisognose di prodigi. Fra me e me ragionavo così: avrò la possibilità di conoscerlo. Alcuni dicono di lui: è il Messia che deve venire! L’Altissimo ha visitato il suo popolo! Chissà se c’è qualcosa di vero. Chissà se potrà fare qualcosa per mio figlio, il resto non mi importa: che cosa posso saperne io di queste dispute su un rabbi! Che mi lascino in pace e credano quello che vogliono. Con questo atteggiamento arrivai da Gesù, e per questo mi rivolsi a lui come guardandolo dall’alto al basso, come chi sa che può comandare, e siccome ti lascio libero di predicare e di guarire, potrò anche comandare dove e chi guarire! Ma quando Gesù mi rispose: “se voi non vedete segni e prodigi, voi non credete!”, compresi, per dono divino, che quelle parole erano in primo luogo dirette a me. Rimasi molto sorpreso, tutto mi sarei aspettato ma non quella frase! Provai la percezione sicura, che non so bene spiegare, che quel maestro conosceva il mio animo come un libro aperto. Ancora di più, perché quelle parole del Nazareno ebbero l’effetto di chiarire a me, funzionario del re, lo stato esatto della mia anima nei confronti di Dio: mi svelarono con una chiarezza meridiana il mio scetticismo misto a credulità nei confronti di quello che fino a quel momento avevo definito come il “guaritore di Nazareth”. Come è possibile, mi chiedo ancora oggi, che poche parole siano così chiarificanti? E così penetranti come una spada a doppio taglio? Ero di quelli che conoscevano il valore delle parole e le sapevo usare: sapevo con quali parole bisognava riferire a Erode, e quali parole usare per comandare e motivare i miei uomini. Ma di fronte a quelle parole rimasi senza parole: è proprio vero: non ho visto nessun miracolo, e forse per questo non ho creduto mai fino in fondo ai prodigi di Cafarnao. E’ vero: ho sentito dire di qualcosa di origine divina che potrebbe esserci nelle parole e nei gesti di quest’ uomo, ma, è vero!, ho scacciato questo pensiero. Lui ha colto, ha letto nel mio cuore, ha capito che lo volevo mettere alla prova, addirittura, è vero, volevo sopra ogni cosa che mio figlio guarisse, ma pensavo anche di sfruttare la malattia di figlio mio per vedere se davvero costui del quale tanto si parla era in grado di guarirlo, come avrebbe fatto e con quale arte. Pregustavo già due vittorie: mio figlio che vive e una splendida figura con Erode al quale avrei raccontato tutto per filo e per segno, appagando quella sua curiosità di cose strane e prodigiose. E il Maestro tutto questo lo ha capito con uno sguardo, anzi prima ancora che io aprissi bocca. E con le sue parole mi volevo dire che perché avvenisse ciò che desideravo avrei dovuto credere in lui di più, già fin d’ora, senza metterlo alla prova, senza più quell’ombra di doppiezza! Tutto con poche parole e guardandomi dritto negli occhi! Ho fatto l’esperienza delle sue parole che salvano. Ha parlato al plurale, forse in quel voi voleva mettere i miei colleghi di palazzo e forse buona parte del nostro popolo, le autorità. Ma io sapevo che quelle parole erano rivolte a me. Non ha voluto umiliarmi davanti ai miei uomini! Se mi avesse detto: se tu non vedi prodigi e miracoli, non credi, mi avrebbe tolto autorità, e avrebbe svelato il mio problema. Il suo sguardo fu per me inequivocabile. Allora compresi che di fronte a me c’era qualcuno che era molto più grande di me, che veramente avrebbe potuto guarire mio figlio e accettai sinceramente che ci fosse in lui qualcosa che veniva dall’alto. Credetti, senza avere visto. Credetti a quello che mi avevano raccontato. Credetti in lui. Dentro di me sentii la forza e l’attrazione di un cambiamento di vita che toccava tante mie azioni e pensieri, di una conversione verso le cose del cielo. Tornerò ad essere credente, pensai, ad esprimere la mia devozione, anche pubblicamente, nella sinagoga di Cafarnao. La gente saprà che prego, che credo. Per questo la mia voce, nella mia risposta, uscì a forza, commossa. Parevano le parole di prima, come se fosse un’insistenza cocciuta, ebbi invece la certezza, come prima, che il Maestro avesse letto nel mio cuore un cambiamento. Capì che non era più la stessa richiesta, anche se le parole erano molto simili. Non so come ma mi venne di chiamarlo così: Signore! Signore, scendi prima che muoia il mio bambino! Ma volevo dire: Signore adesso credo in te anche prima di vederti compiere un prodigio, ho purificato il mio cuore davanti a te e davanti a Dio, mi prostro e ti supplico, riconosco che tu vieni da Dio e che Dio è con te. Mi pento del mio peccato di lontananza, di indifferenza, di incredulità, di supponenza. Mi rendo conto della mia indigenza: non posso nulla, ma desidero più di tutto che il mio bambino non muoia. Che non sia vittima del mio peccato! Scendi a Cafarnao con me, prima che sia troppo tardi, ti prego! E il Signore che mi aveva sorpreso con la prima risposta, mi sorprese anche con la seconda: “vai, tuo figlio vive!”. Aveva capito il mio cambiamento, ma aveva risposto in modo diverso da come speravo. A quel punto io ministro del re, uomo di palazzo, personaggio conosciuto pubblicamente, ebbi la possibilità di mostrare con i fatti e pubblicamente, ciò che Gesù aveva compreso essere avvenuto nel mio intimo come reazione alle sue parole chiare di correzione: se non vedete non credete! Gesù volle compiere il suo miracolo a distanza, e io ebbi la possibilità di credere che l’avrebbe fatto, senza poter vedere, e far vedere che avevo creduto. Prima ancora di guarire mio figlio, quelle parole produssero, o confermarono in me il miracolo di una fede nuova. Il prodigio di passar sopra come alla cosa più giusta, al fatto che per la prima volta un suddito del re non mi obbediva: lo volle guarire a distanza, non pensò di venire con me a Cafarnao. Credetti che lui poteva guariro anche così. Smisi di insistere, si illuminò il mio volto di speranza. Mi inchinai in un profondo ringraziamento, come si fa davanti al re quando ci si congeda. E lì c’era più di un re. E mi incamminai sulla via del ritorno. I passi avevano il ritmo della fretta di riabbracciare mio figlio risanato. Le parole di Gesù avevano avuto per me una risonanza particolare: va’, tuo figlio vive! Non “è guarito” ma vive! E ancora una volta il tono e lo sguardo del Signore, e la forza con cui risuonavano dentro di me le sue parole, avevano reso facile il credervi; più facile ancora. Nel silenzio concitato del camminare verso casa ripensavo continuamente all’incontro avuto, alla conversione che era avvenuta quasi istantaneamente in me. Era come se il malato fossi stato io e, toccato nell’anima, da incredulo ero diventato credente. Avevo perso in un istante quell’ idea del Gesù di Nazareth come un eccentrico saltimbanco, un pranoterapeuta un po’ eccezionale; per questo mi era sembrato d’un tratto senza problema, come la cosa più logica, che potesse guarire a distanza, con la sua volontà, il suo pensiero. Uno che legge nell’anima e cura l’anima, potrà curare il corpo di mio figlio, pur da lontano.
Che sciocco a volerlo costringere ad una lunga camminata, di due giorni! Ma devo dire che con il passare delle ore, il tramontare della luce, il dolore delle gambe poco abituate alle lunghe distanze in poco tempo, avvezze più che altro alla sedentarietà del palazzo, ebbene, ogni tanto si affacciava, con l’immagine del figlio morente che avevo lasciato a Cafarnao, anche il timore, il dubbio: sarà proprio vero che è vivo, che è guarito? Non sono stato troppo precipitoso nel fidarmi delle sue parole, non avrei forse dovuto insistere ancora un po’? Anche qualche mio accompagnatore mi istigava: se fosse venuto con noi, saremmo più sicuri; forse potevamo usare modi più convincenti! Ci fermammo a pernottare in una locanda, e non fu un sonno tranquillo. Gesù e il bambino mi si presentavano continuamente nei sogni. Immaginavo Gesù nella mia casa che gli prendeva la mano, ma poi il sogno di confondeva e non capivo se il bambino era vivo. La luce della speranza lottava con le tenebre del dubbio, con l’angoscia della morte, con il vuoto dell’abbandono. Mi svegliai incerto e provato, e con una grande voglia, mista a paura, di arrivare presto a casa. In quel mattino il mio passo era ancora più rapido, faticavano a starmi dietro. A tratti mi sembrava certezza ciò che Gesù mi aveva detto: avrei riabbracciato mio figlio vivo! In altri momenti si riaffacciava l’inquietudine.
Quando intravidi in lontananza i miei servi che correvano verso di me, perché mi avevano riconosciuto, il cuore prese a battere all’impazzata come a volermi scoppiare in gola e la tensione crebbe altissima. Tuo figlio vive! Gridarono concitati. Alzai gli occhi al cielo e ringraziai l’Altissimo, caddi in ginocchio e ringraziai l’Onnipotente. Quando, ditemi quando ha cominciato a stare meglio? All’ora settima, ieri. Un’ora dopo mezzogiorno. Proprio l’ora nella quale il Signore Gesù mi ha detto: tuo figlio vive!
La fede in Gesù, in tutto ciò che avrebbe fatto e detto da quel momento in poi, divenne in me solida e incrollabile e la contagiai a tutta la famiglia con la quale condivisi l’avventura, gli stati d’animo, le luci e le ombre, la grazia e la tentazione, ogni particolare del mio incontro con Gesù.. La mia famiglia intera seguì poi passo dopo passo i detti e i fatti di Gesù, divennero tutti discepoli del Maestro e tramandammo nelle generazioni questa nostra storia.
Per un fede incerta e confusa il funzionario del re si recò da Gesù a chiedergli di andare nella sua città nella sua casa e guarire il figlio. L’incontro con Gesù produsse una fede più forte in lui.
Per fede tornò a Cafarnao senza Gesù, credendo che il figlio fosse guarito. La guarigione del figlio venuta dalle parole di Gesù e dalla sua fede, produssero in lui un aumento della fede, che si comunicò a tutta la famiglia.
O Dio che concedesti al funzionario del re Erode di ottenere dalla parola di Gesù la grazia della guarigione di suo figlio e della conversione sua e di tutta la famiglia, concedi anche a noi di credere alle parole del tuo Figlio Gesù e di invocarlo con fede in ogni nostra necessità.
ho dovuto rileggere varie volte questo vangelo e il commento. Finalmente ho capito che l'importante dell'evento raccontato è l'atto di fede: è possibile ed è tra il funzionario del re e Gesù perché poco prima c'erano i retro pensieri del funzionario poi c'è un'apertura inaspettata all'evidenza delle parole, che sono vere per entrambi.
Se questo fosse vero penso che un atto di fede -che trasforma- si possa fare anche in autobus, mentre il lavoro non procede a causa di qualche intoppo o se lo scoraggiamento avanza o anche se tutto va bene.
Poi però c'è il fatto di cosa dicono gli altri… dall'essere arroccati su dei principi falsi o non troppo veri, ma tutto condiviso, all'essere irriducibilmente propensi ad accogliere la realtà… che risulta per sé affidabile.
Grazie, è stato bello pensare così all'atto di fede.
Mi pare un approfondimento molto utile. E' una ulteriore dimostrazione che soffermarsi a meditare "tra le righe del Vangelo" può offrire scenari dilatati. Se ci fermassimo al solo rapporto tra fede e guarigione, che potrebbe essere inteso in modo un po' meccanico, perderemmo altre sfumature, che sono sicuramente di più di quelle che ho cercato di evidenziare. I lettori vanno al di là di quello che scrivo e applicano alla loro situazione quello che leggono. Il Vangelo parla a ciascuno.
la domenica vado a messa e ho iniziato a utilizzare questo vangelo e il suo commento come preparazione.
Nelle sue argomentazione ritrovo con più facilità i passi che la liturgia offre nella celebrazione del mistero e che mi avvicinano a Dio perché lo comprendo con Gesù per Gesù in Gesù, come nel commento.
Se l'entrare nelle scene del Vangelo e conoscere meglio i personaggi nel loro incontro e dialogo con Gesù, aiuta noi nella nostra preghiera e nel nostro incontro con lui nell'Eucaristia, facciamo un'esperienza della potenza dalle parola di Dio e della vita contemplativa nell'ordinarietà, che è quanto possiamo poi consigliare agli amici, persuasi che il Vangelo, la Bibbia, è parola di Dio e che tutta è, come dice san Paolo a Timoteo, "utile per insegnare, convincere, correggere e educare nella giustizia" ("Tim 3,16).